Lectio Divina 2024/2025
CALENDARIO LECTIO DIVINA 2024-25
Sacro Cuore – 00055 Ladispoli
Fiordalisi 14 – parpalo@libero.it
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Tra attesa di futuro
e salvezza già presente
Lectio divina di Decalogo e Beatitudini:
la Speranza nasce da un’Alleanza e dà
compimento ad una Promessa
Riferimenti biblici:
il Decalogo in Esodo e Deuteronomio,
le Beatitudini nei vangeli di Matteo e Luca.
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II e IV domenica del mese
Ore 15.30 preghiera delle Ore
Ore 15.30 Meditazione e silenzio
Ore 17.30 Coll-actio e Magnificat
Ore 18.30 Chiusura e Vita
A. RITIRI TEMPI FORTI
Domenica 13-10 Tempo iniziatico
Da ‘Spe salvi’: preghiera e sacrificio sono luoghi generativi di speranza
Domenica 22-12 Natale del Signore
Da ‘Spe salvi’: giustificazione e retribuzione sono posture di futuro
Domenica 13-4 Settimana Santa
Da ‘Spe salvi’: ci sono una speranza individuale ed una più universale
Domenica 22-6 Verifica finale
Da ‘Spe salvi’: felicità qui-ora e ricompensa nel Regno dei cieli?
B. LECTIO DIVINA
domenica 27-10: Prologo ed Epilogo delle Dieci Parole: ragione e finalità di una Regola.
domenica 10-11: Non avrai altri dei. Non ti farai idolo. L’affermazione dell’Unicità di Jhwh.
domenica 24-11: Non pronuncerai il Nome invano. Il rispetto del Reale dell’A-altro da me.
domenica 8-12: Ricordati del giorno di Shabat. Il riscatto dalla condizione che asservisce.
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domenica 12-1: Onora tuo padre ‘e’ tua madre. La continuità di vita nasce da una storia.
domenica 26-1: Non ucciderai. Non commetterai adulterio. I valori chiedono riconoscimento.
domenica 9-2: Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza. Non il potere ma il giusto.
domenica 23-2: Non desidererai la casa..la moglie del tuo prossimo. Educare i movimenti.
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domenica 9-3: Beatitudini dei poveri e degli afflitti: la vera forza è il bisogno interiore.
domenica 23-3: Beatitudini dei miti e affamati di giustizia: finalizzare la reattività.
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domenica 27-4: Beatitudini dei misericordiosi e puri di cuore: tutto si gioca dentro.
domenica 11-5: Beatitudini dei pacificatori e perseguitati a causa: una alternativa c’è.
domenica 25-5: Beatitudini e Regno nel vangelo di Luca. Solo IV prospettive.
domenica 8-6: Guai e persecuzioni nel vangelo di Luca. Cosa accade all’inverso.
C. CENACOLI DOMESTICI
o Domenica 16-11 Giornata della povertà
o Domenica 26-1 Giornata della Parola
o Lunedì 24-3 Giornata dei Martiri missionari
o Sabato 24-5 Giornata della Laudato sii
D. SENSO DI UNA RICERCA
▪Ogni carisma è mosso dallo Spirito per un servizio, tutto da inventare, ma chiamato a
dare risposta ad un bisogno della situazione, per essere luogo d’incontro col Mistero.
Immersi nelle realtà del mondo e nell’amore di Dio mediante il Battesimo, il Signore ci
chiama a riemergere come nuove creature e percorrere la via della debolezza.
Chiamati ad essere con gli altri a partire da quel che siamo con Lui, abbiamo come primo
compito quello di ‘capire’ la Parola noi, se vogliamo ridirla a chi oggi non la comprende.
Aiutare a discernere, ad incontrarsi col fallimento riscoprendovi libertà di pensiero e di
movimento, stiamo dinanzi a forme nuove di vita in Cristo e non più a vecchi schemi.
E’ con le storie che nascono dal vivere con Dio che possiamo farci compagni di strada,
stando nella Chiesa come cercatori di una sintonia non più tanto di un ministero.
Se volete fare un cammino possiamo provarci; se non c’è il senso di coinvolgimento non
basta e grazie. Non c’è più la chiesa di appartenenza, ma quella di riferimento sì.
n.b. per info e iscrizione, rivolgersi a don Gianni 377.1812004 o sig.a Maria 347.9445979
le giornate di ritiro sono dal mattino ore 11 celebrazione eucaristica al sacro cuore
nel 25° anno di questa oasi della Parola, dopo aver percorso Genesi, Esodo, I e II Re, Sapienza
Siracide e Cantico, Isaia, Ezechiele e Geremia, i Salmi, i Vangeli gli Atti Corinzi e Apocalisse.
Introduzione alla lectio
Il valore della Parola e dell’ascolto
Il tratto di Dio è la vicinanza: il Dio vicino, con quella vicinanza compassionevole e tenera, vuole sollevarti dai pesi che ti schiacciano, vuole riscaldare il freddo dei tuoi inverni, vuole illuminare le tue giornate oscure e sostenere i tuoi passi incerti. E lo fa con la sua Parola, con essa ti parla per riaccendere la speranza dentro le ceneri delle tue paure, per farti ritrovare la gioia nei labirinti delle tue tristezze, per riempire di speranza l’amarezza delle solitudini.
La Parola di Dio non serve per intrattenerti o per coccolarti in una spiritualità angelica, non si riduce a culto esteriore, che non tocca e non trasforma la vita; deve spingerti fuori da te per metterti in cammino incontro ai fratelli e per accostarti alle loro ferite.
La Parola ti provoca e ti scuote, ti riporta alle tue contraddizioni, ti mette in crisi, ti spinge a uscire allo scoperto, a non nasconderti dietro la complessità dei problemi, dietro il “non c’è niente da fare”.
Tratto dalla Messa della Domenica della Parola di Dio del 23 gennaio 2022 celebrata da Papa Francesco
L’ascolto è una dimensione dell’amore. L’ascolto richiede la virtù della pazienza, e la capacità di lasciarsi sorprendere dalla verità, fosse pure solo un frammento, nella persona che stiamo ascoltando. Prendiamo esempio dallo stupore dei bambini.
Dare gratuitamente un po’ del proprio tempo per ascoltare le persone è il primo gesto di carità.
Tutti abbiamo orecchi ma non riusciamo ad ascoltare: c’è una sordità interiore; chiediamo a Gesù di toccarla e risanarla: E’ peggiore di quella fisica, è la sordità del cuore.
Il primo comandamento del Vangelo ci chiede di essere attenti e di prestare attenzione. Gesù è la Parola: fermiamoci ad ascoltarlo. L’ascolto è la via maestra per riannodare i fili dei dialoghi interrotti. La rinascita del dialogo passa dal silenzio, dal cominciare con pazienza ad ascoltare le fatiche dell’altro. La guarigione del cuore comincia dall’ascolto.
Tratto dall’Angelus del 5 settembre 2021 e dal messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali del 29 maggio 2022 sul tema “Ascoltare con l’orecchio del cuore”
Alcuni suggerimenti di metodo
- La lectio divina è lettura a due, è un colloquio con Dio. L’atteggiamento fondamentale nella lettura della Parola di Dio richiede l’aiuto dello Spirito che in essa è contenuto e in essa riposa; è racchiuso in queste parole di San Giovanni Crisostomo: “Signore, apri i miei occhi e il mio cuore affinché io comprenda e compia la tua volontà”.
- “La Bibbia si legge con la penna in mano e non soltanto con gli occhi” (card. C.M. Martini). “Essere colpiti” da una frase è grazia, richiamo, stimolo, segno di interesse, sollecitazione, provocazione: è colloquio con un testo “vivo”…Questa attenzione viene spesso trascurata, soprattutto quando si pensa di conoscere il testo e di averlo letto e ascoltato tante volte…
- La lectio è una lettura “intelligente”, è un lavoro impegnativo ma necessario, da cui dipende l’esito dei passaggi successivi del percorso; deve mettere in risalto gli elementi portanti del brano, evidenziare il contesto, per orientarsi al senso corretto del testo; vanno colti la struttura, i personaggi, le azioni, gli atteggiamenti, i sentimenti, le parole chiave. Si scopriranno così elementi che a una prima lettura, distratta o affrettata, passano inosservati; troveremo nuovi indizi anche se conoscevamo il brano quasi a memoria. Cerchiamo i riferimenti di episodi, parole e frasi simili presenti nella Bibbia e analizziamoli cogliendo somiglianze e differenze. E’ questo, uno studio e una ricerca importante con cui la Parola ci raggiunge ed entra in noi.
- Nella meditatio sostiamo sugli elementi principali e chiediamoci qual è il messaggio con cui Dio ci interpella attraverso le parole del testo. “Quando leggi la Parola di Dio, bisogna che ricordi di dirti senza interruzione: è a me che si rivolge, è di me che si tratta. Quindi, applica tutto il testo a te” (Kierkegaard).
- Con l’oratio trasformiamo in preghiera la nostra meditazione, entrando nel sentimento religioso che il testo suscita. Si tratta di parlare con Dio in preciso riferimento alla Parola meditata. “Signore, cosa vuoi che io faccia?” (S. Francesco d’Assisi).
- La contemplatio è guardare sé stessi, tutto e tutti con lo sguardo di Dio e non con il nostro occhio umano; è il momento del colloquio intimo tra noi e il Padre.
- La collatio conclude la lectio comunitaria; non ha finalità di discussione ma serve a comunicare le risonanze personali della Parola, i dubbi e le reazioni suscitate dal testo. E’ il momento della condivisione. Ognuno vede il fratello e/o la sorella in una nuova dimensione, orientata verso un progetto comune; si scopre che essere fratelli e sorelle vuol dire indicare gli uni agli altri la strada da percorrere, camminando insieme. E per questo non si danno giudizi, ma si esprime accoglienza, apprezzamento e gratitudine.
Tratto dalle Regole fondamentali della lectio di Fra Domenico Marsaglia
Frati Domenicani dell’Italia settentrionale
Lectio Divina
Tempo iniziatico
Da “Spe salvi”: preghiera e sacrificio sono luoghi generativi di speranza
13 ott 2024 - giornata di ritiro -
In questo anno parleremo della speranza, vista con gli occhi dei Dieci Comandamenti e quelli delle Beatitudini, con particolare riferimento, nelle quattro giornate di “ritiro tempo forte”, alla “Spe salvi” di Papa Benedetto XVI.
Utilizzeremo per la nostra meditazione cinque riflessioni sulla speranza: una di un monaco, una di un laico e le altre di tre papi (allegato documento “preghiera e sacrificio come luoghi generativi di speranza”).
La “Spe salvi” di papa Benedetto è ritenuta, da teologi e vescovi, una lettera molto profonda e teologica, rivolta più ai sacerdoti che ai laici; non ci sono, infatti, riferimenti al Concilio Vaticano II né al IV Convegno ecclesiale di Verona che, rispettivamente con la costituzione pastorale “Gaudium et Spes” e con i documenti relativi al tema “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo” mettevano in maggior risalto il pensiero laico, riconoscendone valore e meriti. La “Spe salvi” è teoretica.
Mons. Menichelli dice che la speranza è di tutti perché l’uomo ha bisogno di amare e di sentirsi amato; e l’amore serve per vivere e per morire. La lettera di papa Benedetto apre degli orizzonti sulla vita eterna, più che sulla speranza umana. Cercheremo dunque di aggiungere alla lettura della “Spe salvi” un più ampio respiro, avvalendoci dei contributi del Concilio Vaticano II, del Concilio di Verona e tenendo conto anche del nostro contributo, della “nostra” speranza e di ciò in cui crediamo.
La “Spe salvi” si apre con una frase di San Paolo Apostolo nella lettera ai Romani (Rm 8,24): “nella speranza siamo stati salvati”. Prosegue con un’affermazione: “il presente, anche faticoso, può essere vissuto ed accettato, se conduce verso una meta, e se, di questa meta, noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”.
Poniamoci questa domanda: il Cristiano che vive nel continente europeo, sempre più vecchio e sempre meno cristiano, ha ancora motivo di sperare?.
E ancora: c’è una logica nel formarsi e formare in una fede che appare in caduta libera? Che cosa spera il Cristiano di fronte ai fatti del mondo? Bisogna rinvigorire la fede, non nei contenuti, che non si toccano, quanto nel ritrovare la gioia e l’entusiasmo che caratterizzavano le prime comunità cristiane.
Pensiamo ai due discepoli di Emmaus che scendono da Gerusalemme; sono pieni di tristezza; ma poi incontrano lo straniero e gli danno il crisma della fede, parlandogli del Maestro e delle cose che diceva, per accorgersi, alla fine, allo spezzare del pane, che si trovano proprio davanti a Gesù. Allora, in piena notte, risalgono di corsa verso Gerusalemme e con gioia annunciano di aver incontrato Gesù.
Prima sono tristi e disperati ma l’incontro con Gesù li riempie di speranza e riversano subito quella speranza agli altri.
Il Cardinale Martini ci dice che troppo spesso il nostro è un annuncio a metà, ineccepibile dal punto di vista teologico ma freddo e vuoto di forza comunicativa; la speranza deve fecondare la nostra vita e l’annuncio, da parte di tutti, deve essere dato con gioia e nella sua bellezza, senza formule che rimangono distanti.
Bruno Forte dice che la vera penuria dell’uomo di oggi è quella speranza che va al di là della speranza: l’uomo ha bisogno di amare e di essere amato per vivere e per affrontare anche la morte; tutte le nostre esperienze sono segnate dalla fragilità della vita, dalla caducità del tempo, abbiamo bisogno di sperare che l’amore vinca ogni ingiustizia e risani ogni ferita. Quindi solo una grande speranza può dare senso alla vita e andare al di là di ogni speranza. Dobbiamo essere capaci di amare anche superando la nostra stanchezza di vivere, quella stanchezza che ci prende quando le cose vanno male, quando non ci sono spiragli, quando siamo amareggiati. La speranza ci fa affrontare il presente e attendere i cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Pietro nella sua seconda lettera. La speranza non si conquista, è un dono dello Spirito ma deve fiorire; e i fiori sono i gesti d’amore compiuti continuamente dalle persone. Se questi fiori venissero soltanto dagli uomini cadrebbero, invece i fiori della speranza rimangono vivi nei cuori di chi li vede.
Per questo bisogna riconoscere Dio nelle cose quotidiane, affinché nessuno rimanga senza speranza. Nella Lettera ai Pagani Paolo dice proprio: “Voi siete senza speranza, non perché non accederete alla vita eterna, non è questo il senso; siete senza speranza perché non conoscete Dio, non siete lieti, non avete la gioia”.
Queste parole di San Paolo potrebbero essere rivolte anche a noi…
La lettera enciclica “Spe Salvi” individua quattro luoghi della speranza.
· la preghiera: se non mi ascolta nessuno, Dio mi ascolta; se nessuno può aiutarmi, Dio può;
· l’agire: la fede è attiva ed è a favore dei fratelli. Si lotta per un mondo più umano; “sono amato e quindi, devo amare”;
· il soffrire: bisogna fare di tutto per diminuire la sofferenza, ma bisogna anche saperla accettare perché da essa germina il seme; ricordiamo il seme che marcisce e muore e che porta molto frutto. Il senso della sofferenza, però, si trova soltanto stando accanto a Cristo.
· Il giudizio divino: è l’ultimo luogo della speranza ed è credere nella resurrezione, credere che esiste la fine della sofferenza attraverso una giustizia divina che ripara e ristabilisce; significa però credere anche che questa giustizia è grazia e amore.
Torniamo ai primi due ambiti della speranza: la preghiera e l’agire.
La preghiera è rivolgersi al Padre per tutto ciò che riguarda il mondo ed è esterno a noi. Se anche gli altri pregano per noi, tutti siamo compresi nella preghiera.
L’agire è il darsi da fare; non ci sono soltanto le preghiere comunitarie o le preghiere personali; preghiera è un lungo elenco di azioni: preghiera é Caritas, preghiera è volontariato, preghiera è il battersi per ogni ingiustizia, per i diritti dei bambini, i diritti dei disabili, i diritti delle donne, per i paesi poveri, quelli in guerra, per l’ambiente. Anche il fatto che noi cattolici leggiamo, ci aggiorniamo, ci confrontiamo, contestiamo oppure apprezziamo, ci scontriamo tra noi, e a volte con Dio, per capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ed il fatto che usiamo la nostra ragione e libertà per nuove idee, per l’accoglienza di tutti, anche tutto questo è preghiera ed è speranza.
Speranza, quindi non è un Dio-ricompensa, ma è un Dio che si è fatto uomo e che ci aiuta ad avvicinare gli altri con la gioia.
Il Vangelo, se letto senza gli occhi della speranza diventa soltanto un racconto; se letto con la speranza e con la gioia diventa comunicazione che produce fatti, che cambia la vita.
Nella Chiesa di oggi, la maggior parte dei fedeli è invisibile: chi conosce poco la Parola, chi non va a Messa; invece la base della Chiesa è l’uomo e noi siamo chiamati a vedere i piccoli doni della speranza ovunque, anche in quelle persone che vediamo sempre “immerse nel traffico della vita quotidiana”. Dobbiamo guardare anche lì per trovare i doni della speranza, non possiamo semplicemente andare in Chiesa, perché la vera Chiesa è anche l’uomo, l’uomo comune, che sa donarsi agli altri. Dobbiamo quindi toccare un Dio che apprezza l’uomo per come è, perché tutti sono apprezzati da Dio e nessuno viene abbandonato, seguendo vie che non possiamo prevedere né incasellare. Ci stupiamo e ci scandalizziamo se la Chiesa fa gesti eclatanti di accoglienza senza renderci conto di quanti, infiniti, ne faccia Dio seguendo vie molto diverse dalle nostre.
La preghiera è scuola della fede e della speranza ed esse producono nell’uomo il risveglio di tutti i sensi e la resistenza. Papa Francesco, infatti, definisce la speranza “concreta”, qualcosa che “si tocca”, e la sua origine è la nascita, non la morte; non si tratta del fatto che, alla fine, avremo il Paradiso. La nuova vita è nuova speranza.
La preghiera insieme a Cristo, dunque, fa parte della spiritualità dei “sensi vigili”: ci fa vedere Cristo che opera in terra, ci fa sentire la Sua Parola, ci fa toccare il bisognoso, ci fa sentire il profumo della speranza, quella che ci dà la forza e la resistenza per accettare la sofferenza; ma per resistere e accettare ci vuole anche qualcos’altro; per arrivare al culmine della speranza dobbiamo prima provare la consolazione ed il compatimento. Entrambe le parole hanno la radice con, a significare “essere con”, “far parte di”; recano il concetto di essere insieme a chi soffre, quindi, non possiamo avere una speranza solo per noi, dobbiamo avere una speranza per tutti. E a questo arriviamo soltanto se consoliamo e compatiamo gli altri.
Bernardo di Chiaravalle dice che “Dio non può patire ma com-patisce” e noi, dobbiamo essere come Dio, dobbiamo saper compatire; da questo arriva la speranza.
Un uomo, in cerca di amore, affiancato dalla speranza, ha la possibilità di cambiare. Se noi, quindi, riusciamo ad avvicinare una persona, portando con noi la speranza, questa persona, magari lontana da noi mille miglia, oppure non veramente buona, ebbene, quella persona, attraverso la speranza, il nostro compatimento e la nostra preghiera, può cambiare.
Domande-spunti di riflessione: la nostra preghiera è aperta alla speranza? Produce frutti?
Parliamo ora della sofferenza: è trattata nei paragrafi 37, 38 e 39 della lettera enciclica “Spe salvi”. Il Papa esordisce con queste parole: “La sofferenza fa parte dell’esistenza umana, scappare non è possibile.” Possiamo dire che in realtà la sofferenza fa parte di tutta la creazione, e non riguarda soltanto l’uomo. Costruirci luoghi personali dove il male non può toccarci è un’inutile speranza, perché equivale a costruire luoghi vuoti e solitari. Quando riusciamo nell’intento, ci chiudiamo in una stanza e non ci importa di nessuno, non perché siamo cattivi ma perché non vogliamo soffrire; allora, sì, sottraendoci ai contatti possiamo evitare le sofferenze morali ma non potremo sfuggire a quelle fisiche o a quelle causate dagli eventi naturali (es. terremoti, ecc.). Ricordiamo il periodo della pandemia da Covid…quanta solitudine, distanziamento sociale, ma non è nata nessuna speranza; anzi, molte persone si sono ritrovate senza speranza, alcuni continuano a mantenere il distanziamento sociale…quindi non troviamo la speranza né eliminiamo la sofferenza costruendo un bunker intorno o dentro di noi, alzando barriere che ostacolano la compassione e creano distanze.
La sofferenza, dunque, deriva dai limiti dell’uomo: che fare?
Una possibile risposta è nel suddividere la sofferenza di tutti, sulle spalle di tutti, ma la nostra società, e noi stessi, non arriviamo a questa soluzione. Pensiamo alla guerra: ci chiediamo cosa potremmo fare, ma in realtà non facciamo nulla e continuiamo a mandare le armi; facciamo manifestazioni, spendiamo tante parole, diciamo che non è giusto, ma in realtà, a parte le armi, non diamo nulla a questi popoli in guerra. Pensiamo a quando nasce un bambino con handicap; cosa succede? Lo Stato é totalmente assente, accade che qualcuno della famiglia si defili, qualcuno si concentra sul lavoro perché magari, a causa di quel bambino c’è più bisogno di soldi..
Certamente in casi come questi, le persone hanno bisogno di speranza, con Cristo che sarà senz’altro accanto a noi. Quindi, di nuovo, chiediamoci: “dov’è la speranza nella nostra società? Manca compatimento e preghiera. Ma Gesù ci ha detto una cosa importante: “A chi ha fame date da mangiare”. Non ha detto: “A chi ha fame parlate di me e dite che c’é la vita eterna..” Piuttosto ha detto: “Per prima cosa, date da bere, da mangiare, date ciò che serve…”.
Nella “Spe Salvi” si dice che l’uomo deve accettare di soffrire per amore del bene, della verità e della giustizia. Ma c’è bisogno di un “noi” che aiuti i singoli e gli oppressi. Dobbiamo metterci insieme e riscoprire la speranza, non soltanto quella escatologica, ma quella “concreta”, come dice Papa Francesco, reale e che sappia dare una meta, perché può accadere che qualcuno, disperato, abbia soltanto bisogno di vedere una meta davanti a sé. Nel caso in cui fossimo noi, mandati davanti a quella persona, dovremmo essere in grado di dare una meta, attraverso la nostra speranza, senza parlargli di vita eterna.
Il dolore trova un senso perché rafforza i legami umani, rende più umani, rende credibile l’amore, fa scoprire un Dio che non abbandona e accende la speranza, ma se a tutto questo non si accompagna la compassione, l’uomo è ancora nella notte; è come se tutti noi fossimo i discepoli di Emmaus che però, non hanno incontrato Cristo e che, quindi, non sanno tornare indietro verso Gerusalemme, con gioia.
Altre domande-spunto di riflessione:
- siamo capaci di soffrire per amore?
- gli altri sono importanti per noi?
- per me, la verità è così importante, da accettare la sofferenza che mi può causare?
- la promessa dell’amore di Dio giustifica il dono di me stesso?
Riflessioni conclusive di don Gianni
Nell’arco di questi anni siamo passati attraverso eventi che hanno messo in discussione la nostra speranza: pensiamo al contagio, con tutte le morti che ci sono state, alle guerre con altrettante morti, alla crisi climatica. Noi diamo per consolidate cose che non lo sono…se, per caso domani un asteroide, spostasse in maniera infinitesimale l’asse terrestre, tutto finirebbe. Insomma, in questi anni abbiamo fatto l’esperienza della precarietà, del fatto che non c’è certezza: della salute, del posto di lavoro…
Pensiamo a questo tempo che ci mette di fronte a qualcosa a cui, forse non siamo preparati; siamo convinti cioè che la vita, alla fine continua…per noi è sufficiente che la vita vada avanti, bene o male; invece qualche volta la vita si ferma. Ci sono storie che si interrompono.
Intorno a questo, si suggerisce di leggere “Spe salvi”, e di comprendere la differenza tra speranza individuale e speranza collettiva, perché molto opportunamente il Santo Padre Benedetto XVI ci spiega che a fronte di una esplosione di speranze individuali, è morta definitivamente la speranza collettiva. Noi non siamo più capaci di sognare insieme, di avere orizzonti positivi; ognuno si ricava la sua piccola fetta di torta e mira soltanto a quella, non curandosi del resto.
Invece pensiamo al sen. Agnelli, che organizzava le colonie, i cineforum e altre iniziative per gli operai perché capiva che è da un bene comune, da una vita condivisa che nasce la motivazione personale a spendersi e a mettersi in gioco.
Meditiamo sulla figura di Mosè che conduce il popolo d’Israele attraverso il deserto e ad un certo punto arriva al monte Nebu; Jahvé gli dona di vedere la Terra Promessa - ricordiamo un’immagine bellissima di Papa Giovanni Paolo II che contempla tutto Israele - ebbene Mosè non vedrà da vicino la Terra Promessa ma soltanto dall’alto del monte. Questa cosa, considerata una sorta di castigo, in realtà sta semplicemente a significare che Mosè ha fatto ciò che doveva, ha dato compimento alla sua missione e alla sua età aveva tutto il diritto di morire.
Insomma, vediamo la Terra Promessa sempre “davanti” a noi…non c’è posto per la speranza quando c’è sicurezza; abbiamo speranza solo se non c’è certezza.
Pensiamo a una cosa molto bella che dice Gesù: “quando sentirete parlare del Regno dei Cieli e di dove si trova, non preoccupatevi, perché il Regno dei Cieli è già in mezzo a voi”. Ecco, noi potremmo dire che la speranza é già in corso, perché Colui che è la nostra speranza, l’ha già iniziata, riscattandoci con la Sua croce. E dunque noi siamo partecipi di una provvidenza, di un movimento di cui non siamo nemmeno consapevoli, ma che ci accompagna; è il disegno misterioso di una storia che non viene meno. Abbiamo il timore che venga meno, ma in realtà fa i suoi passi; noi siamo chiamati a crederci, anche se non vediamo; quindi partecipi della grazia, andiamo avanti, ogni sera e ogni mattina, soprattutto coltivando la convinzione che siamo nel presente della salvezza; cioè la salvezza è già qui.
Concludiamo con le preghiere finali fatte di tre momenti, il Magnificat per dire “grazie”, il Padre nostro per dire “fraternità” e le preghiere che vogliamo dire insieme in questo momento, per le guerre, le malattie e tutto quello che desideriamo.
Continueremo i nostri incontri trattando Decalogo e Beatitudini; la scelta è dovuta a questo ragionamento: la speranza nasce da una compagnia, dal fatto che c’è un’alleanza (il Decalogo) e la speranza nasce da una Promessa, appunto le Beatitudini.
Lectio Divina
Prologo ed Epilogo delle Dieci Parole:
ragione e finalità di una Regola
27 ott 2024
Iniziamo la lectio con la lettura di Deuteronomio 32, versetti 1-12
1"Udite, o cieli: io voglio parlare. Ascolti la terra le parole della mia bocca! 2Scorra come pioggia la mia dottrina, stilli come rugiada il mio dire; come pioggia leggera sul verde, come scroscio sull'erba. 3Voglio proclamare il nome del Signore: magnificate il nostro Dio! 4Egli è la Roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto. 5Prevaricano contro di lui: non sono suoi figli, per le loro macchie, generazione tortuosa e perversa. 6Così tu ripaghi il Signore, popolo stolto e privo di saggezza? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? 7Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo racconterà, i tuoi vecchi e te lo diranno. 8Quando l'Altissimo divideva le nazioni, quando separava i figli dell'uomo, egli stabilì i confini dei popoli secondo il numero dei figli d'Israele. 9Perché porzione del Signore è il suo popolo, Giacobbe sua parte di eredità. 10Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. 11Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. 12Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c'era con lui alcun dio straniero.
Ci interessano in modo particolare, e ci ispirano per la nostra meditazione i versetti 10-12.
Iniziamo oggi la nostra riflessione sul Decalogo, nel giorno in cui la Chiesa sta finendo il suo decalogo di questo tempo, il documento del Sinodo sulla sinodalità. Cominciamo mettendoci davanti alla Parola che ci si rivolge, con l’atteggiamento di chi riconosce la propria povertà e la potenza di Gesù; è l’atteggiamento migliore perché la Parola possa dirci e perché interroghi la nostra vita.
Quindi non ci sarà l’esegesi sul passo, ma ci sarà l’introduzione al Decalogo, fondamentale nella fede dei credenti. Tutta la fede d’Israele (e anche la nostra fede dovrebbe esserlo), è incentrata su “Shemà Israel”- Ascolta Israele” - Deuteronomio 6 Versetti 4-9, (4Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”) oppure Deuteronomio 11 Versetti 13-21, ( “13Ora, se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do, amando il Signore, vostro Dio, e servendolo con tutto il cuore e con tutta l'anima, 14io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d'autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio. 15Darò anche erba al tuo campo per il tuo bestiame. Tu mangerai e ti sazierai. 16State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allontaniate, servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro. 17Allora si accenderebbe contro di voi l'ira del Signore ed egli chiuderebbe il cielo, non vi sarebbe più pioggia, il suolo non darebbe più i suoi prodotti e voi perireste ben presto, scomparendo dalla buona terra che il Signore sta per darvi. 18Porrete dunque nel cuore e nell'anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; 19le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai; 20le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, 21perché siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro.”) Ascolta Israele, il Signore è uno solo, amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutto te stesso, amerai il prossimo come ami te”. Questa fede nell’Unico ci interessa, noi siamo quelli che sono stati raggiunti da questa novità. Nella riflessione degli umani sul Mistero e sul Sacro la novità è che esiste un solo Dio e che non ci sono più molti dei. Storicamente Israele ci introduce nella fede monoteista; gli idoli, dunque, sono scaduti. Ci ritroviamo con la prima Parola, rivelativa di Jahvé, “Io sono”. La prima è “Io”, seguita dal tetragramma YHWH – “Io sono Colui che ci sono” – “Io sono Colui che sono con”.
Si tratta dunque di un Dio non riconducibile ad un evento; non è il Dio del tuono, della montagna, ma è Qualcuno che, potremmo scoprire poi, ha a che fare con una Storia, è il Dio di ciò che accade. Un’immagine molto bella che la teologia ci rimanda è quella di un Dio “da tenda”, che cammina con, ed in questo si definisce; nel fatto, cioè, che c’è un camminare insieme, che c’è una sinodalità, che Dio non si ferma, non è riconducibile a un luogo, che affronta l’imprevedibile, viaggia con Israele, non chiede edifici che lo riducano all’interno di uno spazio, è pellegrino come il Suo popolo, zingaro nella vita. La libertà è il centro del Decalogo, è uno spazio pericoloso perché noi sappiamo che essere liberi ci introduce in un territorio nel quale ci troviamo allo sbaraglio. Dunque il Decalogo è proprio una sorta di disciplina che l’uomo si dà: in questo spazio minaccioso Dio é con l’uomo, l’uomo può contare su. Si riduce a un’immagine, ad una rappresentazione, non si faranno idoli perché si mostra in una compagnia – “Sarò con te”; si mostra in una Voce, e la Voce, come suggerisce il Vangelo di oggi, apre una visione sul mistero che è Dio, non avremo altro che un Libro per dire di Colui che è il Tutto.
Esprime bene l’atteggiamento di Israele quello che è la diversità di Colui che è totalmente altro quando ci rimanda che davanti alla teofania - Cap. 19 di Esodo – Israele non vuole avere a che a fare con tuoni, luci, fulmini e altro, e manda Mosè a parlare con questo Dio di cui ha timore. Rinvia ad una distanza che esprime la necessità, quindi, nella storia della salvezza, che si inseriscano dei mediatori che dicono del Mistero di un Altro.
Nel Decalogo ci sono scritte tante cose e ne diciamo solo alcune; la prima è che la sequenza è relazione-regole; non c’è ragione di una disciplina se non perché prima non c’è una storia tra due, un camminare insieme;…Nel senso: chi me lo fa fare? Soltanto la decisione di essere in alleanza con te, di non fare da me. Questa cosa è essenziale e si traduce, come ci dirà anche Gesù nel citare i Comandamenti (per esempio nell’incontro con il giovane ricco) con il fatto che prima c’è una teologia e poi c’è un’etica.
Noi invece, in una data stagione storica e pedagogica, prima abbiamo messo l’etica, cioè “bisogna fare così” e poi abbiamo capito anche che c’é un anticipo, che abbiamo a che fare con Qualcuno.
E’ essenziale questo, altrimenti non si comprende perché si deve rispondere a una coscienza.
Un’altra considerazione: ci sono diversi codici comportamentali nella cultura religiosa antica, anche non ebraica: es. il codice di Hammurabi, il codice dei Sumeri, che hanno contenuto simile al Decalogo di Israele. C’è una fondamentale concentrazione su una postura che è quella del rispetto in relazione a Dio e in relazione al prossimo.
Ma il codice di Israele è introdotto e accompagnato come abbiamo scritto nel programma: abbiamo un Prologo e un Epilogo: prima il fatto che Dio giustifica il Suo proporre le dieci Parole in ragione del fatto che Lui è Colui che ha liberato Israele, l’ha sciolto dalla condizione di schiavitù. E’ un Dio medico che guarisce il male di dentro e per questa ragione, come fa il bravo medico, dice al paziente: “se vuoi essere sano fai così”.
Dopodiché l’epilogo di questa indicazione di atteggiamenti, di comportamenti, è la considerazione che così l’uomo vivrà: “perché tu viva e tu sia felice”. L’uomo vivrà, ossia avrà un futuro, e anche, non vivrà da triste, raggiungerà la pienezza di sé nella misura in cui farà così. Molto bello che, paradossalmente, ciò che ha a che fare con le regole, sia ciò che ha a che fare con la libertà, ossia il fatto che noi diventiamo liberi da noi stessi, nella misura in cui c’è una disciplina. Molto bello che all’uomo sia dato di poter essere libero, anche di sbagliare, cioè di essere portatore di lacune, di povertà, ma lo stesso amato.
Di seguito alcune considerazioni sul rapporto tra promessa e speranza; abbiamo scelto il Decalogo proprio perché apre un futuro, è tutto al tempo futuro: non ucciderai, non ruberai, come a dire: forse non sei capace di farlo adesso; il linguaggio biblico è scarno, ma attento; non dice: non rubare, oggi. E’ al futuro perché io diventerò capace. I Comandamenti sono la vetta della montagna sulla quale sto salendo come Gesù verso Gerusalemme; non si tratta, per forza di qualcosa che ho già raggiunto; sono l’obiettivo a cui tendere anche se oggi sono assolutamente precario su questo.
Chi è Dio? Dio è uno che si dice “nell’oggi”, non in un luogo, non in una cosa, ma in un tempo di un eterno presente; Dio è Colui che parla attraverso una Storia, la Storia che fa con l’Uomo; per questo la chiamiamo Storia della Salvezza. La Bibbia è tutta una storia di alleanze, da quella che Jahvé fa con Adamo, a quella con Noè e poi con Abramo; sono le vie attraverso le quali si esprime il desiderio di Dio, che è il desiderio che ci sia un accordo, ossia che ci siano due che camminano insieme e che confidano l’uno nell’altro. Un accordo definito cosi: dal non vagare per i fatti propri, fino ad una trasparenza che è essenziale nelle relazioni. Il nesso che c’è tra l’alleanza e la vita, e che si traduce nella concretezza del vivere, è quello che fa sì che l’uomo vivendo una compagnia diventi capace di una continuità, ossia l’orizzonte si apre dinanzi a noi nella misura in cui c’è un Noi, non nella misura in cui c’è soltanto un Io.
Pensiamo all’impatto che ha questo con la stagione culturale nella quale viviamo; oggi non c’è la consapevolezza di un destino comune, siamo nel pieno della crisi della partecipazione. Il Sinodo è stato fatto proprio su questo: “comunione, partecipazione e missione”; per dire che in realtà pochi si sentono parte e invece i Dieci Comandamenti, tutta la seconda sezione che Gesù cita in riferimento al giovane ricco, sono tutti per dire “dell’altro”, di avere un atteggiamento di giustizia nei suoi confronti.
Come sappiamo, i Dieci Comandamenti, che in realtà sono undici o dodici, gli ultimi due, i primi due, sono stati accorpati, si riducono ai due Comandamenti dell’Amore: “amerai il Signore Dio tuo; amerai il prossimo tuo”; ma a loro volta questi sono trasformati nell’unico comandamento di cui ci dice Gesù che è quello del “come”: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”, che si traduce ancora in quella legge dell’amore che esprime la Prima lettera ai Corinzi cap. 13, quando dice che alla fine rimangono solo tre cose, la fede, la speranza la carità, ma di tutte la più grande è la carità. Al versetto 7 del cap. 13 di Corinzi 1 c’è la motivazione di quella sorta di decalogo, ulteriore sulla carità, che dice che nessuno deve fare l’interesse proprio, ma quello di Cristo e quello degli altri. Oggi siamo nel pieno della contraddizione rispetto a quel Comandamento: facciamo l’interesse proprio e basta.
Ancora alcune riflessioni sul rapporto tra alleanza e speranza, perché abbiamo scelto il Decalogo dicendo che la speranza, il futuro, viene a noi nella misura in cui c’è una promessa. Il IV comandamento dice “Onora tuo Padre e tua Madre perché tu sia felice”; è l’unico comandamento che porta una conseguenza e quello che ci dice è che non vivremo da tristi se saremo capaci di riconoscere il mistero di coloro dai quali abbiamo ricevuto la vita; perché come il fiume, il nostro futuro non sta alla foce, dove l’acqua si getta, ma sta alla sorgente da dove l’acqua viene.
Nel foglio (allegato) ci sono tre sezioni del decalogo: la prima, giustificativa, la seconda, relativa agli atteggiamenti verso Dio e la terza agli atteggiamenti verso il prossimo; sono soltanto due i comandamenti al positivo e gli altri sono al negativo. Ma noi sappiamo, come ripetuto più volte che il “no” è affermativo, non è come il nostro negare, non è misconoscitivo della persona, del suo diritto di esistere, il no è prudenziale, cautelativo; i dieci comandamenti sono un’elencazione di tutela: quando dicono “non dire falsa testimonianza” é perché noi viviamo in un sistema di fiducia, nel quale, se non sei verace, se non è preservata la trasparenza, se dici e non dici, non è possibile confidare nell’altro.
E’ molto bello che i comandamenti non siano un’indicazione della salvezza di “gregge”, come si dice in pandemia, ma siano l’espressione creativa di una fedeltà, che è cosa diversa dall’essere passivi, e che ci impegna ad una corresponsabilità, ad una corresponsione in cui siamo partner in causa, dentro un dialogo e un’alleanza, in cui non siamo semplicemente coloro che ricevono. “Noi lo faremo e lo ascolteremo” dice Israele, alla fine di quello che Mosè è chiamato a suggerire; e sottolineiamo la sequenza: prima “faremo” e poi “ascolteremo” e ciò per non rischiare di dire sì e poi continuare tranquillamente come prima.
Ancora qualche riflessione sulla prima Parola: “Io sono”. Esprime molto bene la unicità di Jahvè; è uno che dice il proprio mistero; “Io sono” è l’affermazione di un’identità, la rivelazione di quello che uno è, di come si definisce. E non è l’esaltazione di sé, il mettersi davanti agli altri, è il fatto che non c’è altra ragione per un rispetto che la considerazione dell’altro; e il rispetto non é un atteggiamento deferente, è la valorizzazione del Suo Mistero, è assumere una postura di giustizia nei confronti dell’uomo, non pregandolo. Questa cosa che qualcuno ha chiamato una “nuova genesi” – ricordiamo che Genesi racconta delle nostre origini mentre Esodo di un rinnovato atto creativo - ci dice come la vita può scorrere tra le persone, non dunque la parola della legge, ma la legge della parola, dove c‘è un Dio geloso, che conserva la memoria ma è capace anche di perdono fino alla data generazione; un Dio che non va pronunciato nel Suo nome invano, cioè non va messo in gioco a vuoto, senza una ragione, riempiendosi la bocca di Qualcuno che è assolutamente diverso da come noi ci giustifichiamo sulla base di Lui.
Nella sequenza dei comandamenti sottolineiamo alcuni valori essenziali, positivi che sono richiamati: il valore dell’Unicità di Dio; il non farsi immagini contraddice al delirio di potenza che c’è oggi nelle relazioni tra le persone, dove c’è un uso strumentale, magico e mercantile dell’altro.
Richiamiamo il valore di Shabbàt, il giorno diverso, quello della libertà dell’uomo ed il valore di quel comandamento che onora anche la Madre, non solo il Padre, come era nella cultura maschilista dell’epoca; e da questo fa dipendere l’esito di una storia, perché non c’è futuro se non c’è questo richiamo delle origini, del fatto che la vita noi la riceviamo. Richiamiamo il valore del “Non uccidere”; pensiamo a come oggi si è perso il senso del sacro, legato alla dignità della vita umana, nelle guerre, e non solo, nei maltrattamenti che si fanno alle persone anziane e così via.
Richiamiamo il valore del desiderio (gli ultimi due comandamenti), perché Jahvé molto profondamente fa comprendere che non è solo questione di possesso della casa o della donna; è questione “nativa”, che ha a che fare con l’energia pulsionale che ci muove, è il desiderio che va disciplinato, che non significa non provare attrazione, vuol dire che non bisogna indulgere a.., che il desiderio non può essere la sola motivazione che ci spinge a….
Come contraddice il Decalogo a questo universo di idoli, di timori, di sudditanze, dove afferriamo soltanto noi stessi, nel quale siamo immersi oggi, un mondo di possessioni, di falsificazioni?
Allora due domande: quali sono i miei comandamenti? E come domanda il giovane ricco a Gesù: “qual è il più grande dei comandamenti?”
Cosa significa stare accanto a qualcuno? Essere presenza? Quale offerta di relazione facciamo a coloro con i quali camminiamo, se camminiamo? E se non c’è ragione perché ci sia cammino che cosa ci stiamo a fare nella fede?
Si riflette anche sul VI comandamento, sul fatto che la nostra educazione è stata centrata su questo mentre oggi nessuno ne parla.
Un’altra riflessione è sulla dinamica indicativa-imperativa dei comandamenti e cioè sul fatto che Dio suggerisce ciò che è bene e poi lo richiede; ovvero, non c’è prima una pretesa; c’è un’elezione, un discernimento che poi conduce a una proposta che è impegnativa. Questa cosa appartiene alla pedagogia morale, quella cosa per la quale se vuoi che qualcuno si convinca a fare qualcosa, chiede di rendere ragione, poi è necessario attendere che i ritmi dell’altro lo conducano a essere capace di questo. Non sempre le due cose sono così scontate, che ci sia una comprensione e che ci sia un mettere in gioco la volontà.
Ancora una riflessione sul fatto che nei comandamenti c’è un esercizio della volontà di cui oggi non siamo capaci: è difficile dare contezza delle necessità di un comportamento e orientare le pulsioni, le dinamiche, però è sicuro che c’è, nella pedagogia di oggi, la necessità forte di recuperare una dimensione impegnativa della relazione; a significare che, se essere in relazione è fondativo, questo non basta, ma è relazione nella misura in cui è impegnativa, in cui c’è un coinvolgimento della vita. In caso contrario non c’é relazione; viceversa oggi, per fare sorrisi a tutti, vivere di consenso sociale e non ferire, abbiamo la Chiesa fuori. Purtroppo invece, dobbiamo essere costrittivi, ma è importante come esserlo: lo siamo secondo una logica di dominio o di dinamica indicativa-imperativa? Ma, in ogni caso, non si può fare a meno di dire se una cosa è giusta o sbagliata.
L’ultimo pensiero è il fatto che il Decalogo, oggi, in questo oggi, che è il Nuovo Testamento, per Gesù sono le Beatitudini, il discorso sul Monte, come il Decalogo al Sinai; é questa arditezza nel gridare “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno”.
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Lectio Divina
“Non avrai altri dei. Non ti farai idolo”.
L’affermazione dell’Unicità di Jhwh
10 nov 2024
Iniziamo il nostro percorso con il primo comandamento; non si tratta della conoscenza di aride leggi, ma piuttosto di un percorso di libertà; l’amore infinito di Dio ci porta verso quella parola che rappresenta il trait d’union delle nostre lectio: “ speranza”.
Ricordiamo, come già detto, che prima viene la teologia e poi l’etica; prima la libertà e la guarigione, e soltanto dopo le regole; prima c’è una promessa di futuro e di felicità e poi seguono le indicazioni per raggiungere la meta; ma su ogni cosa vive l’amore incondizionato di Dio.
Il primo comandamento ci dice due cose: Dio ci ama, ma soprattutto noi dobbiamo amarlo. E questa è una nuova genesi, una nuova vita deve scorrere dentro di noi attraverso l’amore che impariamo a conoscere da Dio.
Molti sono i riferimenti biblici: (vedi documento allegato)
Es. 20, 1-6 - Dt. 5, 1-10
Mt. 19, 16-22
Immaginiamo che stiamo uscendo dal nostro Egitto, siamo stati umiliati e resi schiavi; davanti a noi c’è solo un deserto e un alto monte. Non siamo ancora nella terra in cui scorre latte e miele, ma abbiamo la sconfitta alle nostre spalle e la solitudine di un deserto davanti a noi. In alternativa al deserto c’è solo la fatica di salire un alto monte. Questa è la cornice che Dio sceglie, per ognuno di noi, per fare un incontro personale, inatteso e che apre alla speranza. Dato che non riusciremo a vagare all’infinito nel deserto, prima o poi dovremo salire sul monte. Sceglieremo la fatica di salire perché le scelte non sono mai facili, ma proprio lì, quando le scelte sono molto difficili e faticose, avviene l’incontro, l’alleanza, il dono di libertà che il Signore ci vuole dare, e ascoltiamo una Voce che si mette a camminare con noi. Questa la disposizione d’animo in cui dobbiamo metterci.
Prima domanda/spunto di riflessione: dove ci troviamo noi?
Stiamo vagando nel deserto o siamo già arrivati in cima al monte?
Sul monte avviene l’incontro; l’inizio è “Ascolta, Io Sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù.” (Esodo 20, 1-6 e anche Marco 12, 28-30).
Dio ci ha fatto uscire dalla condizione di schiavitù, quindi siamo liberi, ma ci troviamo nel deserto. Dio è accanto a noi, non c’é più un tempo e uno spazio che Lo staccano da noi e sta parlando. Ma di cosa parla Dio? Nel nostro brano fa un elenco di comandamenti, ma non si tratta di leggi e di punizioni.
Osserviamo i verbi utilizzati: “temere” Deuteronomio 6, 2-13; “ascoltare” Deuteronomio 6, 3-4; “amare” Deuteronomio 6, 5; “servire” Deuteronomio 6, 13; “seguire” Deuteronomio 6, 14; “ricordare” Deuteronomio 8, 8-9; “aderire”
Deuteronomio 10, 22.
Leggiamo Deuteronomio 10, 12: “Ascolta, che cosa ti chiede il Signore Dio tuo se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per le sue vie, che tu l’ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima”. Non sono certo verbi che ci danno dei comandi, ci danno semplicemente un sentiero da seguire; ma c’è una cosa bellissima, due parole: tu e tuo. “Tu” indica ciascuno di noi e “tuo” è riferito a Dio, non come il padrone, Colui che ha creato il cielo e la terra, si tratta del “mio “ Dio per ognuno di noi, personale, a dire che ciascuno di noi, ai Suoi occhi, è unico e irripetibile. Ed è a “me” che si rivolge, a “me” vuole parlare, non guarda Mosè, guarda ognuno di noi faccia a faccia e ama proprio “me”. Non è forse questa la via della speranza? La roccia a cui posso aggrapparmi? Il grembo su cui posso chinare il capo? La spalla su cui posso piangere? E’ proprio il mio Dio.
La nostra libertà ci consente di fare una serie di scelte per ogni cosa, ma abbiamo anche una serie di sogni che vogliamo realizzare con tutti i mezzi, mete che cerchiamo di raggiungere solo con le nostre forze. Dio ci dice invece: “Vi do un solo sogno, è l’amore, dovete raggiungere soltanto questo, tutto il resto non conta.” L’unico scopo che può dare un senso alla nostra vita è l’amore ed esso dà anche un ordine alla nostra vita e la mette a posto.
Quindi, il primo comandamento, che stiamo trattando oggi, vuole farci aprire gli occhi su tutto ciò a cui noi diamo troppo valore; e dare troppo valore a cose e persone significa farci schiavi di quelle cose e quelle persone e tornare polvere.
Pensiamo semplicemente a tutto il tempo che perdiamo andando dietro a questa e a quell’altra cosa…Dio ci dice che ci sono valori più importanti; a volte dovremmo essere capaci di dire un piccolo no per fermarci un attimo e dare a Dio il vero valore.
Seconda domanda/spunto di riflessione: quali sono le nostre vere mete nella quotidianità? Quali le priorità che abbiamo nella nostra mente? Interroghiamoci con sincerità, senza nascondere la verità a noi stessi, anche se risulta scomodo. A parte le grandi parole…la fama, la ricchezza, il potere, il riconoscimento, la propria realizzazione, ci possono essere anche piccole cose che però noi mettiamo davanti a Dio e davanti a tutto il resto.
La Parola di Esodo 20, 4 ci dice “non ti farai idoli”: in ognuno di noi c’è questo amore disordinato, fatto di una libertà condizionata da tante false mete e che finisce per danneggiarci.
(Matteo 6, 24) “Nessuno può servire due padroni, non potete servire Dio e mammona”. Quindi dare troppo valore ad altro o ad altri ci fa ignorare Dio. Ma cosa produce in noi questo? Il fatto di avere tanti idoli, tante cose cui correr dietro produce in noi ansia, ci toglie tempo e cancella l’entusiasmo della ricerca di Dio, fa tacere la nostra coscienza.
Bonhoeffer ci dice: “cancella l’alterità di Cristo comparandolo ad un martire nei campi di concentramento”; può anche accadere che noi, inseguendo tanti dei, trasformiamo Dio in ciò che vogliamo noi, Lo usiamo a nostro piacimento e questa è forse la cosa più pericolosa.
Matteo 22, 32 , con riferimento al primo comandamento, ci dice: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”; è quindi il Dio di ognuno di noi, ciascuno può mettere il suo nome, perché noi siamo fatti a immagine di Dio; Dio non smette mai di chiamarci. Ricordiamo Genesi 3, 9: “Adamo dove sei?” Questa frase è rivolta ad ognuno di noi.
E tornando al canto iniziale (allegato), noi dobbiamo saper rispondere: “solo in Dio riposa l’anima mia”; è questo ciò che Dio si aspetta da noi, che ci affidiamo e riposiamo in Lui; non c’è meta più elevata che questa comunione con Dio; dobbiamo lasciarci guidare per la strada che Dio vuole, altrimenti perdiamo noi stessi.
Ancora una Parola: “Amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto se stesso”. Padre Arturo diceva: “chi non ha dato tutto, non ha dato nulla”. E’ un grande insegnamento, molto difficile da mettere in pratica e vuole dire che bisogna mettere Dio al primo posto.
Prima Corinzi 10, 31: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto per la gloria di Dio”; e ancora, Matteo 10, 37: “Chia ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me non é degno di me” .
Quando il Signore dice :”Io sono il Signore Dio tuo”, vuole chiederci di seguirlo; quindi come dice il Vangelo: “Vuoi essere perfetto? Vendi tutto e seguimi”. “Lascia dunque le scelte che hai fatto, le mete che hai raggiunto da solo e segui ciò che Io ti dico, segui Me, lascia tutto il resto perché non ti fa bene”. Dio è amore, quindi dobbiamo seguire l’Amore. “In questo è l’amore: non siamo noi ad amare Dio ma è Lui che ha amato noi e ha mandato Suo Figlio come vittima di espiazione dei nostri peccati”. (Prima Giovanni, 4, 10).
Ma il comandamento non finisce qui perché Gesù ha aggiunto due cose. Luca 10, 25-28: “Amerai Dio e amerai il prossimo come te stesso”. Giovanni 13, 34-35: “Amatevi gli uni gli altri come Io vi ho amato”.
E’ più facile illudersi di amare un Dio che non si vede, che amare il fratello che si vede: fratello, amico, collega di lavoro, compagno di scuola. Gesù ci ricorda: “ ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli…, le avete fatte a me”.
Ricordiamo anche, Prima Corinzi, 4, lo splendido inno alla carità di Paolo: “L’amore é.. tutta quella cosa che è l’amore”, una cosa molto difficile da mettere in pratica.
Nuovo interrogativo/spunto di riflessione: “amate l’altro come voi stessi”; ma siamo sicuri di amare noi stessi? Non è così scontato…l’insoddisfazione, la tristezza, la mestizia, il non sentirsi all’altezza, la disperazione, ma anche il contrario, la presunzione, l’egoismo, il voler piegare gli altri alle nostre idee a tutti i costi, sono tutte ingiustizie che facciamo prima di tutto, a noi stessi e che ci immergono in quell’amore disordinato che ci consuma e che ci fa perdere felicità e speranza.
Non possiamo dire di mettere Dio al posto giusto se non ci disponiamo a farlo; il primo comandamento continua: “il Signore Dio tuo adorerai”. A lui solo renderai culto.” L’adorazione fa parte del primo comandamento (Mt. 4, 10). Vediamone le fasi:
• ringraziare per ogni cosa, il respiro quotidiano. Ce lo dice Paolo in Prima Corinzi 4, 7:”Cosa possiedi che tu non abbia già ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se non l’avessi ricevuto?
• supplicare; “qualsiasi cosa comandate al Padre nel mio nome Egli ve la darà” (Gv 16, 23). “Sia fatta la Tua volontà, e non la mia”, il Padre nostro di Gesù nell’orto dei Getsemani.
• obbedire; questo è un sacrificio gradito a Lui: “per te ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra” Filippesi 2, 10. Questa è la via per la felicità.
Fermiamoci su altre parole: un Dio geloso; troviamo questo termine anche nei Salmi, da intendersi non come intendiamo noi, ma nel senso di gelosia di una mamma, che darebbe la vita per i propri figli, così come ha fatto Gesù, che ha dato la vita per tutti noi. E solo quella mamma, che sa amare così, sa anche perdonare infinite volte; cerca, con tutti i mezzi, di salvare il figlio, anche se è un drogato; il suo desiderio, in ogni caso, è di salvare il figlio e di perdonarlo; così dobbiamo intendere la gelosia di Dio. E poi punire e perdonare. Ma cos’è la punizione di Dio? Non è nient’altro che il nostro esserci allontanati, come Adamo che viene cacciato dal Paradiso terrestre: in realtà è lui che si è allontanato. E anche per noi, la punizione peggiore è di non avere Dio vicino. Quindi tutte le nostre scelte sbagliate ci fanno allontanare da Lui ma anche dalla famiglia, dal mondo, perché il male non si limita ad un pezzettino ma è sempre molto distruttivo e arriva dappertutto. Pensiamo al male come ad un sasso che viene gettato in uno stagno: le onde si allargano sempre più e si fermano soltanto quando arrivano sulla riva, hanno un moto continuo; ebbene il male è così, le sue conseguenze si diffondono su tantissime persone nel mondo.
La misericordia e l’amore invece, coprono ogni peccato. Dio è pronto a rimediare i mali del mondo, anche quelli peggiori, pensiamo alle guerre o ai problemi climatici del nostro tempo, ma ognuno di noi deve avere amore e misericordia, non fare il male. Allora, Dio può mandare le sue ondate d’amore, che vanno oltre le rive e si diffondono in tutto il mondo; il male viene trasmesso per tre o quattro generazioni, cioè si sposta ma c’è un limite, il bene invece dura mille generazioni, a significare che non ha limiti.
Evidenziamo due elementi riguardo al giovane ricco. Il primo è che la Bibbia ci parla di “un tale” e questa espressione viene utilizzata quando si vuole indicare una persona che non va; questa persona che appunto, è un senza-nome, incontra Dio faccia a faccia. Noi che siamo qui, che leggiamo la Parola di Dio, e siamo dei teofili, come dice San Luca nell’introduzione al suo Vangelo, noi che siamo alla ricerca di Dio, facciamo attenzione a non essere un tale qualsiasi.
Vediamo la seconda domanda che fa questo ricco: quali comandamenti…? Nel dialogo tra lui e Gesù viene fatta la lista dei comandamenti rivolti verso gli altri, e non vengono indicati i primi due perché il ricco in realtà è un ateo, pensa di credere ma non è così; incontra Gesù faccia a faccia e Gli chiede quali sono i comandamenti, fa tutte le cose che essi prevedono eppure Gesù non lo conosce perché prima di tutto c’è sempre Dio, bisogna amare e rispettare Dio.
Ultimo accenno sulla speranza: si tratta di un dono molto facile da perdere. Dalla fede deriva la carità, dalla carità la verità, dalla verità amare Dio nella libertà, ma cos’è tutto questo? E’ speranza, è un desiderio di felicità dell’uomo. Con la speranza arriva la forza, sempre, che ci aiuta davvero nella vita, e con la forza arriva il coraggio di proseguire il cammino, perché finalmente siamo nell’intimità di Dio. Romani 12, 12 dice “allegri nella speranza”; non si può essere tristi nella speranza perché come dice Romani 8, 17 “se siamo figli siamo anche eredi, se siamo eredi siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo”. La speranza è quel dono che ci consente di vivere e non di vivacchiare, è questa forza che ci permette di lavorare soffrendo per amore; l’amore non è senza sofferenza, soffrire con amore, per amore, realizza i piani di Dio, ecco la speranza. Papa Francesco nel 2017 ha detto “la speranza non delude; essa non è fondata su ciò che noi possiamo fare o essere o ottenere e nemmeno in ciò che crediamo, essa è fondata sull’amore di Dio per ogni uomo ed è ciò che di più fedele e sicuro possa esserci”. Quindi non è qualcosa di aleatorio, è una cosa sicura. Quando diciamo “Speriamo!” la nostra è un’affermazione.
In sintesi il primo comandamento è amore, per se stessi, per gli altri, per amare Dio e, finalmente, anche per sentire l’amore di Dio, perché Lui è la “stella del mattino” (Ap. 2, 28). Torniamo dunque al nostro deserto: se siamo nel deserto e andiamo verso quel monte potremo vedere bene le stelle e soprattutto la stella del mattino, non saremo offuscati dalle tante luci della città, siamo dunque degli osservatori in ricerca e saremo riempiti della gioia di Dio: “Sarete felici” conclude il decalogo.
Lectio Divina
“Non pronuncerai il nome invano”
Il rispetto del Reale dell’A-altro da me
24 nov 2024
Esodo 20.7 “7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano”.
Deuteronomio 5.11 “11Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano”.
Matteo 7, 21-27 “21Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22In quel giorno molti mi diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?". 23Ma allora io dichiarerò loro: "Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l'iniquità!". 24Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande".
Luca 6, 46-49 “46Perché mi invocate: "Signore, Signore!" e non fate quello che dico? 47Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: 48è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene. 49Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande".
Da questo momento i comandamenti sono scritti in modo molto lapidario, con un semplice versetto. Nella lectio precedente abbiamo parlato di idolatria, che molti associano a questo comandamento. In realtà l’idolatria sta tra il primo e il secondo comandamento. Nel mondo religioso che circondava Israele si costruivano statue che venivano portate in processione e davanti alle quali ci si prostrava per chiedere favori. Dio proibisce questo ad Israele perché Lui è Altro rispetto a questi idoli, è qualcosa di diverso: un uomo non può costruirsi un Dio per i suoi bisogni, Dio non vuole questa cosa e dice di non poter essere rappresentato. E ciò vuol dire che Dio non può essere “conosciuto dagli uomini”. Quindi, per il popolo ebraico, Dio è l’inafferrabile, Colui che non si può catturare, né piegare al proprio volere, è un Mistero di cui si può solo intuire qualcosa, ognuno di noi magari intuisce anche cose diverse, perché, appunto Lui è Altro e non possiamo farci neanche un’immagine mentale di Dio.
Per noi Cristiani solo Gesù può dipingere Dio e lo fa attraverso le Parabole; mediante le parole di Gesù si può scoprire un po’ questo volto di Dio.
Non pronunciare il nome di Dio, dunque, vuol dire che dobbiamo stare attenti a come parliamo di Dio, e non solo…
C’è il libro di un predicatore americano, di quelli che vanno in TV, che si intitola “Prega e diventi ricco” e si intende “ricco” non di cose spirituali, ma proprio di soldi; è un po’ come se avessimo scambiato Dio per un influencer, un banchiere, uno che gioca in borsa… proprio ciò che Dio non vuole assolutamente.
Gesù ci riporta con i piedi per terra e infatti ci dice: Gv. 14.9 “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto? Chi ha visto me ha visto il Padre”. Ecco un’immagine di Dio. E poi, ancora Giovanni, 14.11 “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse”.
Attraverso questi versetti abbiamo due grandi indicazioni su Dio: prima di tutto che è Padre e quindi il nome è Padre e poi che va in “relazione”: io sono con te, Lui è con me, io sono con Lui…Quindi è Padre e relazione. Possiamo dire che ascoltando Gesù abbiamo un’immagine di Dio senza immagine.
Torniamo ai versetti di Esodo (20.7-9 e Deuteronomio (5.11), con particolare riguardo all’avverbio “invano”. Per la Bibbia ha il significato di schawe e vuol dire vano, vuoto, e come abbiamo visto precedentemente, questo aggettivo si attribuisce agli idoli. Quindi, in sostanza il Comandamento ci dice di non nominare il nome di Dio come quello di un idolo. Ma “vano” vuol dire anche, che non si può conoscere, quindi si traduce in “Non nominare ciò che non conosci”
Passiamo ora alla parola “nome” nella Bibbia. In Oriente conoscere il nome di una persona significava avere possesso su quella persona; conoscere il nome di una divinità significava poterla usare per scopi magici, superstiziosi, esoterici, manipolatori, ecc. quindi il nome ha un significato convenzionale, designa l’essenza di chi lo porta, ne è parte integrante, dà un ruolo all’interno dell’universo, un senso alla vita di chi lo porta, una identità che caratterizza.
Era così anche per i Romani; essi dicevano: Nomen omen, il nome è un augurio, un indizio sul destino.
Sappiamo che spesso Dio cambia il nome ai suoi consacrati: Abramo padre di molti diventa Abraham padre di una moltitudine; Giacobbe, soppiantatore, diventa Israele, uno che lotta con Dio.
Ecclesiaste 6.10 ci dice: “chi non ha nome, non esiste”; se pensiamo a tutte le persone, che per qualche ragione, perdono la memoria, in realtà si trovano proprio in questa situazione, non esistono, non sanno chi sono, cosa hanno fatto nella vita, perdono tutto.
Nel Vangelo, di Luca ma anche degli altri evangelisti, Dio è un Padre misericordioso, è un seminatore, è una preziosa perla, è la dracma perduta che bisogna cercare, è l’amico che apre la porta in piena notte, è il Buon Pastore che cerca la pecora smarrita; vediamo insomma l’essenza di Dio, il ruolo di Dio in tutte queste parabole che, con varie immagini, ci danno il nome di Dio.
Ma dobbiamo dire che Dio ha un nome; siamo sul solito monte aspro e brullo, c’è un roveto che sta bruciando e c’è una teofania: Dio pronuncia liberamente, Dona il suo nome al suo popolo, un nome che dice e nega, un nome che svela e cela, un nome nascosto e un nome esplicito. Ha un nome che ci dice che Lui ha una presenza efficace nel mondo, l’uomo non può racchiuderLo in concetti terreni, non può manipolarLo, non può asservirLo, Lui dice: “Io sono Colui che è”, sono Santo, esisto, sono vita, sono il Dio che è con voi, ed è il tetragramma impronunciabile, JHWH. Gli Ebrei quindi, lo chiamano Adonai, Signore, in greco Kyrios, poi lo chiamano Elohim, pienezza, oppure El Shaddai, l’Onnipotente.
In ogni caso, in Deuteronomio, nei capitoli 12 13 e 14 troviamo la teologia del nome di Jahvè.
Geremia 14. 9 dice: “tu abiti in mezzo a noi e il tuo nome viene invocato su di noi”. Nei Salmi si dà sempre un valore salvifico al nome di Dio: “O Dio, salvami per il Tuo Nome” (Salmo 54). “Egli mi guida per il giusto cammino per amore del Suo Nome” (Salmo 23) e poi tantissimi altri in cui è ricorrente questa espressione.
Quindi Jahvé sta nel Suo popolo, proprio attraverso il Suo nome santissimo; questa è la Sua Promessa, la responsabilità che ha verso di noi è quella di non abbandonarci, ma anche l’uomo riceve il suo nome da Dio e la responsabilità dell’uomo verso Dio è di non profanare questo nome, annunciandolo in modo falso.
Il nome di Dio non si possiede ma si testimonia. (Esodo 33. 19) “Farò passare davanti a te tutto il Mio splendore e proclamerò il Mio Nome, Signore, davanti a Te, farò grazia a chi vorrò far grazia, e avrò misericordia a chi vorrò far misericordia”. Insomma è completamente indipendente da noi, non ci intende, non possiamo manipolarlo.
Nel Nuovo Testamento Gesù amplia questo concetto e ce lo fa sentire molto più vicino attraverso il Nome di Padre, addirittura Abbà, papà, è un vezzeggiativo (Mt. 6. 9) e (Romani 8.15).
Gesù è il Figlio di Dio, quindi Dio ci ha adottati (Prima Giovanni 3.1)
Siamo fratelli di Gesù (Romani 8. 29).
San Josemaria scrive in suo libro che si intitola Amici di Dio: “Dio è un Padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamalo Padre molte volte al giorno, e digli da solo a solo, nel tuo cuore, che Lo ami, che lo adori, che ti riempie”.
Gesù ci ha dato questa preghiera perfetta che dice: Sia santificato il Tuo Nome. E cosa vuol dire “santificare”? Significa riconoscere Dio come Dio, non come un’altra cosa, vuol dire testimoniarlo rendendogli gloria, lodandolo.
Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2814 dice: dipende inseparabilmente dalla nostra vita e dalla nostra preghiera che il Suo nome sia santificato fra le Nazioni.
I Cristiani hanno esteso all’Eucarestia, a Maria e ai Santi, il rispetto per il Nome.
Parliamo per un momento delle false apparizioni; ne abbiamo una vicinissima, a Trevignano, sconfessata completamente dalla Chiesa. Ecco, le false apparizioni, in cui si chiedono fondi per finanziare la costruzione, si è detto, di una cattedrale più grande di San Pietro, sono un vero abominio, contro il secondo comandamento, non perché abbiamo offeso Dio ma perché sono state ingannate le persone semplici, coloro che Dio chiama “i poveri di Dio” e queste persone, molte purtroppo, hanno accettato di dare soldi ad altre persone prive di scrupoli,
Circa cinquant’anni fa, questo comandamento si traduceva nel “Non bestemmiare”, cioè non offendere Dio con nomi spregevoli, ma in realtà il significato è altro, non è questo; tant’è che adesso, in teologia, anche con l’aiuto della psicologia, la bestemmia, nel senso classico della parola (e cioè aggiungendo delle parolacce, o parole di odio, di rimprovero, di sfida, ecc., al nome di Dio, non ha più la gravità di un tempo.
In realtà la bestemmia non è questo.
Citiamo il sonetto Primo di Gioachino Belli sulla bestemmia:
“Bada, non biastimà, Pippo, che Iddio
è omo da risponne per le rime”
ed un proverbio orientale:
“Quando la rabbia ti fa sputare contro il Cielo,
finisci sempre con lo sputarti in testa”.
Si dice comunemente “bestemmiare come un turco”, ma in realtà in arabo, è grammaticalmente e stilisticamente impossibile bestemmiare. Ai nostri giorni la non-conoscenza di Dio nelle famiglie rende quasi naturale la bestemmia, anche nei giovani, ma questo è diventato un problema di maturità e dignità dell’uomo, non altro.
Passiamo quindi a capire cos’è veramente la bestemmia, e su questo dovremo fare una riflessione.
La bestemmia è scambiare il nome Persona di Dio con qualcosa di vano, pericoloso, con l’incitazione all’odio, verso altre persone o popoli.
C’è un nuovo spot appena uscito in TV, molto bello in cui si vede il disegno del viso di una donna a metà; da un lato la donna che piange in reazione a tutte le accuse, “tu non vali niente”, “senza di me tu non puoi fare nulla”, “sei una nullità”, ecc. dall’altro lato si vede il volto, sereno, non rattristato dalle lacrime e la risposta, bellissima: “no, io sono Maria, io sono Paola, io sono Lidia, io sono Daniela, ecc.” Ecco, questo spot ci dice proprio cos’è la bestemmia: è prendercela con gli altri, è togliere il nome agli altri.
E troviamo la bestemmia anche negli scritti e nei disegni blasfemi, che vogliono colpire altre religioni, altre culture, ciò che è diverso da noi. e che rendiamo un nostro zimbello.
Sono bestemmie per l’umanità anche le pratiche criminali come la guerra, la tortura, la schiavitù…sappiamo benissimo che non esistono le guerre sante, anche se quando le combattiamo ci sentiamo dei giusti che combattono per Dio e contro coloro che non credono; ciò è assurdo ed è bestemmia.
E’ bestemmia anche usare e seguire una religione o più religioni, facendone cocktail, come fitness dell’anima; in questo modo Dio diventa uno dei tanti…Ci sono anche persone che dicono cose bellissime e sante, ma che sono pronte, senza alcuna esitazione, a sacrificare gli uomini per quello che dicono; ci sono ancora persone che pretendono forme di devozione in nome di Dio, preghiere per avere indulgenze, pensiamo alle catene di S. Antonio.
E’ bestemmia il fanatismo religioso, da fanum, sacro.
Altra bestemmia è escludere un fratello o addirittura un figlio, perché vive una situazione che noi non approviamo.
Un altro modo di bestemmiare è accusare un fratello sbattendogli in faccia la Parola di Dio; questo è bestemmia perché Dio è giudice, non noi. E su questo dobbiamo fare una riflessione approfondita: quante persone teniamo a distanza perché non sono nel nostro DNA?
Bestemmiare è usare il nome di Dio per qualsiasi fine umano che ci sembri giusto.
Quindi l’unica unità che può esistere in una umanità multiculturale come la nostra è proprio il secondo comandamento: non nominare il nome del tuo Dio, e soprattutto non nominare quello degli altri o quello dei fratelli per contrastarli e umiliarli.
Gesù è vero Figlio del Padre, non ha mai giudicato nulla e nessuno; siamo nella sinagoga di Cafarnao e il Vangelo dice: “Tutti erano stupiti del Suo insegnamento perché insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi” e questo perché Gesù non parla accusando, non parla puntando il dito come gli scribi e i Farisei (e come facciamo anche noi), ma usa la giustizia di Dio.
Nel versetto successivo c’è un indemoniato, cioè uno che ha un’idea falsa di Dio pur stando nella sinagoga, che dice a Gesù; “Io so chi tu sei, il Santo di Dio, allontanati!” Ecco, quest’uomo preferisce le sue idee a quelle di Dio. Riflettiamo su questo brano (Luca 4. 31-44 oppure Marco 1. 21-28).
Facciamo quindi un’analisi approfondita della bestemmia, perché contrariamente a quanto pensiamo, può essere che incorriamo molto facilmente nel bestemmiare, contro Dio e contro i fratelli.
Ultimo risvolto di questo comandamento è “non giurare”. (Mt. 5. 33-37) “Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti, Ma io vi dico, non giurate affatto, sia invece il vostro parlare, si si, no no, il più viene dal Maligno”.
C’è però un giuramento buono, chiamato assertorio, quando dice (Galati 1.20): “ Dio mi è testimone che io non mentisco”. Poi pensiamo anche a Dio, che giura più volte nel Suo nome, per esempio ad Abramo, per convalidare la Sua Parola: “Giuro su Me Stesso”, a garanzia che sarà così come dice.
Geremia 4.2 invece ci dà delle valide indicazioni per il giuramento: “Giurerai, viva il Signore, con verità, con ponderazione e con giustizia”. Quindi nel giurare non dev’esserci inganno sulla bocca, è necessaria la riflessione e il non essere affrettati per salvare la propria faccia; insomma non dobbiamo fare come Erode che a causa del suo giuramento dovette far decapitare il Battista per portarne la testa a Salomé; dietro il giuramento deve esserci sempre giustizia.
Salmo 62, 12 “Saranno lodati tutti coloro che giureranno nel Suo nome”; coloro che giureranno secondo questi tre criteri saranno lodati da Dio.
Un’ultima cosa sul nome; Dio ci chiama tutti, ognuno di noi, per nome (primo Samuele 3. 4), (Isaia 43. 1) (Giovanni 10. 3) (Atti 9. 3-4). Noi siamo di Dio, come dice Gesù “tutti i vostri capelli sono contati”, ma la cosa più importante per Dio è il nostro nome e ci dice “Vi ho chiamati amici”, ci ha scelti per tutta l’eternità, prima della creazione del mondo, per essere santi al Suo cospetto.
E per finire parlando di speranza abbiamo la formulazione “positiva” del secondo comandamento: “Io rendo onore al nome di Dio e a quello del fratello”. Questa è la speranza: dare la dignità, il rispetto, la concordia, a Dio e ai fratelli, e non credersi figli unici: lascio a Dio tutto l’onore perché riconosco la Sua grandezza, io sono polvere. Guardo a Dio con sommo rispetto, perché anche se Lui è altro, è così diverso, è così immenso rispetto a me, mi viene sempre incontro. Lascio che Dio sia Dio, così finalmente sono libero; venero Dio leggendo la Sua Parola (Salmo 102, versetto 2), e come Giobbe, nelle avversità, riesco a dire: Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore. E naturalmente, nel nome di Dio, accetto tutti i miei fratelli, comunque e dovunque essi siano.
Alcune considerazioni finali:
• Bestemmia è l’uso improprio del nome di Dio, per giustificare sé stessi, uso “principiatico, categorico, nel senso che viene usato un tono che si impone, quando in realtà dovremmo parlare con molta discrezione.
• Osservare il secondo comandamento è rendere lode e ringraziare per tutto il bello che abbiamo, tralasciando le cose che non ci piacciono.
• Si osserva che nella povertà del linguaggio biblico, spesso si usa la formula inversa del negativo per concetti affermativi; del tipo che “chi non crederà sarà condannato”, in realtà si traduce con “chi crederà sarà salvato”; ed è una speranza che ha a che fare con una fede determinata, non generica, cioè noi crediamo nel nome di un Dio che è Padre, Figlio, Spirito, cioè relazione.
• Oggi dobbiamo avere la capacità di trovare modi di parlare di Dio che passino più attraverso i gesti piuttosto che attraverso le Parole; Gesù dialogava senza formalità con la donna di Samaria al pozzo e avvicinava il lebbroso, trovando per ognuno il modo giusto per parlare di Dio.
• All’inizio della Bibbia l’uomo dà il nome e questo è partecipazione all’atto creativo di Dio: nulla rimane come il nome. Quando definisci qualcuno, lo identifichi in qualche modo. L’uomo non dà il nome solo per una volta: quando incontra la donna e ciò perché la donna ha già un nome, è parte originale, fondativa, costitutiva, proprio nel suo essere mistero e diversità rispetto all’uomo
Lectio Divina
“Ricordati del giorno di Shabat”
Il riscatto della condizione che asservisce
8 dicembre 2024
Esodo 20, 8-11 “ 8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato”.
Esodo 34, 18-26 18Osserverai la festa degli Azzimi. Per sette giorni mangerai pane azzimo, come ti ho comandato, nel tempo stabilito del mese di Abìb: perché nel mese di Abìb sei uscito dall'Egitto. 19Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è mio: ogni tuo capo di bestiame maschio, primo parto del bestiame grosso e minuto. 20Riscatterai il primo parto dell'asino mediante un capo di bestiame minuto e, se non lo vorrai riscattare, gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga davanti a me a mani vuote. 21Per sei giorni lavorerai, ma nel settimo riposerai; dovrai riposare anche nel tempo dell'aratura e della mietitura. 22Celebrerai anche la festa delle Settimane, la festa cioè delle primizie della mietitura del frumento, e la festa del raccolto al volgere dell'anno. 23Tre volte all'anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio, Dio d'Israele. 24Perché io scaccerò le nazioni davanti a te e allargherò i tuoi confini; così quando tu, tre volte all'anno, salirai per comparire alla presenza del Signore tuo Dio, nessuno potrà desiderare di invadere la tua terra. 25Non sacrificherai con pane lievitato il sangue della mia vittima sacrificale; la vittima sacrificale della festa di Pasqua non dovrà restare fino al mattino. 26Porterai alla casa del Signore, tuo Dio, il meglio delle primizie della tua terra. Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre".
Deuteronomio 5, 12-15 “12Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d'Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato.”
Luca 6, 5-11 “5E diceva loro: "Il Figlio dell'uomo è signore del sabato". 6Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C'era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. 7Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo. 8Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all'uomo che aveva la mano paralizzata: "Àlzati e mettiti qui in mezzo!". Si alzò e si mise in mezzo. 9Poi Gesù disse loro: "Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?". 10E guardandoli tutti intorno, disse all'uomo: "Tendi la tua mano!". Egli lo fece e la sua mano fu guarita. 11Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.”
Marco 2, 23-28 “23Avvenne che di sabato Gesù passava fra campi di grano e i suoi discepoli, mentre camminavano, si misero a cogliere le spighe. 24I farisei gli dicevano: "Guarda! Perché fanno in giorno di sabato quello che non è lecito?". 25Ed egli rispose loro: "Non avete mai letto quello che fece Davide quando si trovò nel bisogno e lui e i suoi compagni ebbero fame? 26Sotto il sommo sacerdote Abiatàr, entrò nella casa di Dio e mangiò i pani dell'offerta, che non è lecito mangiare se non ai sacerdoti, e ne diede anche ai suoi compagni!". 27E diceva loro: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! 28Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato".
Cominciamo con un’introduzione ai passi letti: il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, la settimana scorsa, in una conferenza, ha espresso il pensiero secondo cui stiamo andando verso una stagione di conflittualità permanente; i fatti che succedono, la situazione della Siria come ulteriore focolaio di guerra ci confermano il senso di quel pensiero. Nella conflittualità, in realtà, non ci sono soltanto le guerre, il clima relazionale delle situazioni che viviamo quotidianamente é marcato da un fenomeno che forse, prima, non era così evidente e che gli analisti chiamano “polarizzazione”. C’è una frammentazione, viene a mancare quel corpo unico, quell’oikos, quella “casa comune” di cui ci parla Papa Francesco; in genere ci si protegge attraverso relazioni duali o poco più che duali, senza curarsi troppo di come va il mondo, e c’è un’evidente fatica a fare quella cosa che si chiama “mediazione”. In due anni di guerra tra Russia e Ucraina, l’unica cosa che ha funzionato è stata lo scambio di prigionieri e purtroppo non c’è stato molto altro.
E’ frequente quel fenomeno che si chiama “giudizio”: si guarda all’altro dal proprio punto di vista, gli si fa una sorta di radiografia, si ha una lettura decisamente negativa di tutto e così, si rischia di diventare estranei: “se io non so chi sei”, diventa faticoso…, se non ci sono legami, alla fine ci si sorride senza mai compromettersi, e ognuno fa come vuole.
Ci serve una “tregua”; il mondo ha bisogno di dire: “facciamo una pausa”; nella guerra tra Palestina e Israele, come ha invocato Papa Francesco, ma anche noi abbiamo bisogno di una tregua, con noi stessi, con il mondo…
Insomma, abbiamo bisogno di ciò che ci dice il Salmo 45: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”. E ciò perché così, almeno per un giorno, ci sia Pace.
Pensiamo allo stop and go dell’auto; al semaforo la macchina si ferma; in realtà il motore è acceso e dopo un po’ riparte. Avremmo bisogno come del pane, di un simile meccanismo: ecco, questo è lo Shabat, un po’ come il nostro Giubileo.
Nella cultura di Israele c’è questo interrompere, mettersi in mezzo, inter, e fare altro.
Per esempio, nei nostri processi interiori, quando viene fuori tutto il male che vediamo nell’altro, sarebbe positivo se ogni tanto vedessimo anche qualcosa del buono che c’è nell’altro; se fossimo capaci di avere una memoria “grata” e riuscissimo a vedere il bene che abbiamo ricevuto dalla persone e non ci limitassimo a vedere soltanto ciò che non va, il fatto che sono perditempo o non capaci; se riuscissimo a ricordare, con gratitudine, con memoria eucaristica e come diceva Bernhard Häring, non soltanto con una memoria ferita… Ecco, se fossimo capaci, almeno per un momento, di vedere l’altro così, forse avremmo un’altra prospettiva. Lo Shabat parte proprio dalla memoria: ci dice “ricordati!”
Alcuni pensieri sul comandamento e sulle differenze tra i vari brani. Si parla di lavoro, di figli, tutti, compreso lo schiavo, riposano. Si parla di schiavitù; quello che è in gioco nella tregua di cui parlavamo, in quella pausa della vita che non abbiamo più, è esattamente il rischio che il lavoro ci renda schiavi e che l’avere a che fare con la corsa della vita, alla fine non ci renda liberi. Quel lavoro che dovrebbe aiutarci ad andare avanti, in realtà ci tira indietro.
Ricordiamo cosa osserva il Faraone quando Mosé vuole portare il popolo a lodare il Signore nel deserto a distanza di tre giorni di cammino .. chiede “perché?” e gridando apostrofa gli Ebrei come fannulloni.
Ciò esprime con chiarezza l’idea che l’uomo debba essere produttivo, efficiente, non può solo “essere”, ma deve “fare”, altrimenti non ha dignità e non fa ciò che gli altri si aspettano da lui, è questo che è in gioco; quindi il fatto che il comandamento ricordi il fatto di essere stato schiavo, serve a capire una storia e non a vivere soltanto la circostanza.
La circostanza ci porta a farci sentire l’urgenza: devo lavorare…se non lavoro non guadagno, e quindi non riesco a comprare quella macchina che vorrei per Natale …e via dicendo.
La storia invece, ci dice che già abbiamo vissuto l’esperienza di non essere liberi e c’è stato qualcuno che ci ha liberato e se ora parla, è perché allora ci ha liberato; quindi se abbiamo memoria facciamo attenzione a ciò che diciamo; la nostra grande verità è che dobbiamo essere liberi, non possiamo rischiare di tornare ad essere schiavi; e se prima eravamo schiavi del Faraone, chiunque lui rappresentasse, ora siamo noi a renderci schiavi.
Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo, che significa “riservarlo”; santo “kadosh”, diverso, è ciò che viene messo da parte, e in qualche modo diventa quel settimo giorno, ottavo giorno nella tradizione cristiana, giorno diverso dagli altri giorni. Dirà così il Piccolo Principe alla volpe per far comprendere che c’è un giorno in cui si va alla vigna perché gli uomini ballano e quel giorno è atteso come un giorno che non è uguale agli altri.
Quindi quando Jahvé dice “osserva”, dice qualcosa che prima di tutto è una memoria di liberazione, che è ciò che ci interessa di più, essere liberi e non schiavi; che non vuol dire che non dobbiamo lavorare, ma che un giorno, un tempo per fare pace con noi stessi, un’ora in cui riposare dentro, dobbiamo trovarla; perché la grande questione è che l’uomo non si definisce soltanto in un prodotto ma, come dice Mosè al Faraone, nella possibilità di andare da qualche parte a rivolgersi a qualcun altro, al suo Dio, ma anche al Suo amore, ai Suoi frutti.
Quello che ci chiede il comandamento è una conversione a qualcuno, non a qualcosa.
Un secondo pensiero riguarda la Tradizione: ci si deve riposare il settimo giorno perché Jahvè si è riposato il settimo giorno, come riporta la Genesi; si tratta di un passo forte: ci dice che anche Dio riposa, e la questione è che nel settimo giorno noi diventiamo partecipi dell’iniziativa creativa di Dio; non si tratta di una creatività senza regole, in quanto anche il riposo fa parte dell’azione creativa di Dio, che ci conduce a quella parte fondamentale e quasi finalistica del tutto che si chiama Bellezza. Dopo la fatica, alla fine abbiamo la possibilità di contemplare l’opera della creazione e viviamo di questo più che di altro.
Gli Ebrei nel giorno di Shabat non premono neanche il pulsante dell’ascensore per salire perché è un gesto di lavoro; c’è tutta una casistica secondo la quale ci sono quaranta attività proibite (quaranta è un numero biblico) e una serie di tradizioni tra le quali il vestirsi a festa o il preparare piatti particolari, cose che rendono particolare quella giornata. Questo vale per gli Ebrei, e anche per i Noachidi, che osservano le leggi di Noé, le sette regole che sono i comandamenti della seconda tavola della Legge riguardanti le relazioni.
Terzo pensiero: che cosa fa Gesù? Gesù osserva il Sabato, come dice il Vangelo ma lo trasgredisce anche, Soprattutto Gesù dice molto chiaramente che il Sabato è per l’Uomo, non l’Uomo per il Sabato e opera diverse guarigioni il giorno di Sabato proprio per dire che la vera festa è la liberazione dal limite, da se stessi. Dunque il giorno di festa è il giorno della libertà; ci fa capire che è Lui il Sabato, che l’Uomo è il Sabato; anticipa la Resurrezione in qualche modo attraverso le guarigioni compiute nel giorno di Sabato, aggiungendo così al Sabato quel sovrappiù che manca alla tristezza degli altri sei giorni della settimana. Ci dice che dobbiamo imparare a smettere di fare e almeno “cominciare” ad essere.
Un altro pensiero ci riporta a noi: a partire dal nome di Jahvé che abbiamo meditato nell’incontro precedente e collegando quindi questo comandamento all’altro: Hashem; quando meditiamo il Mistero di Dio, per non dire il nome del Dio Israelita si dice Hashem (il Nome).
Quello del Sabato è il giorno della contemplazione, potremmo dire della finalità, della comprensione di quella cosa per la quale facciamo tutto il resto, è il giorno della priorità, di quello che muove l’Uomo, la ragione che rende possibile all’uomo entrare nella santità, nella diversità, nella qualità della vita. L’Uomo non è fatto solo per l’utile, come ci insegna l’economia, ma è fatto per “altro”.
La Pasqua, la vera festa è l’Altro: la Pasqua è la liberazione anche dalla schiavitù del morire; santificare significa ritagliare una parte e dire a se stessi “siamo fatti per la festa” come suggerisce Apocalisse 21, la festa senza tramonto né affanno verso la quale tendiamo, la festa totale del Cielo che abbiamo davanti come orizzonte. Ma noi reinventiamo la festa? Come? Con chi? Perché?
Rivolgiamo un pensiero alle guarigioni, indicative, che Gesù compie di sabato: la donna gobba, una donna sempre piegata, che non ha sollievo (Luca 13), simbolo del peso del giorno feriale; l’uomo con la mano paralizzata (Marco 3), simbolo dello strumento che diventa incapace di lavorare; l’uomo idropico (Luca 14); l’uomo paralizzato che da 38 anni è sul bordo della piscina dell’acqua dalle proprietà guaritrici, nella quale nessuno lo aiuta ad immergersi; Gesù lo libera dalla rassegnazione (Giovanni 5); con la guarigione del cieco dalla nascita (Giovanni 9), Gesù si manifesta come festa a chi non chiude gli occhi.
Un altro pensiero riguarda il fatto che Dio “riposa”: di solito abbiamo a che fare con un Dio creatore ma è bello anche quest’altro aspetto; ciò che i carismatici chiamano “riposo nello spirito”, ossia il fatto che ci sia un tempo che non è per il bisogno, ma per la relazione, tanto che l’Assemblea ecclesiale viene chiamata “Santa convocazione”. Dio riposa, Dio respira: il ritmo della vita; anche l’Uomo respira, ogni cosa che fa ha un suo respiro; l’Uomo inspira ed espira secondo un ritmo che costituisce la prima regola da imparare per chi soffre di ansia, cioè darsi uno Shabat: interrompere è qualcosa che rende più produttivi. Purtroppo in questo mondo che corre, c’è invece chi non alcun tempo di riposo e non riesce neanche a vedere i figli, lavorando ininterrottamente per tante ore consecutive. Dobbiamo interrogarci su questo grande Moloch che è il lavoro, e che ci fa agitare in questa dimensione che non è quella del vivere, ma che purtroppo è spesso l’unica dimensione rimasta all’uomo di oggi, la dimensione di ciò che fa.
L’ultimo pensiero è sulla santità: che cosa significa santo? Significa salutare, salvifico.ma soprattutto significa che “appartiene a”, kadosh, santo, significa che è di Dio: quello che mi interessa, il mio centro, l’integrità del mio percorso, del mio esistere; almeno su questo poter dire che c’è un giorno che vale per tutti nello stesso modo, qualcosa che annulla la differenza tra i potenti e gli schiavi, tra i ricchi e i poveri.
Il comandamento è dato a chiunque, a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, a tuo figlio…tutti hanno diritto, anche se sono schiavi. Ogni 50 anni, con il Giubileo si condonava il debito; così nel giorno di Sabato Gesù guarisce, elimina ciò che impedisce la festa; ci riscatta in qualche modo dal potere del mondo e ci porta a comprendere che la nostra fatica ha un suo fine: la crescita, la qualità della vita. Il giorno della festa è il giorno della nostalgia della bellezza, il giorno della fraternità nel quale non c’è più tensione; il giorno nel quale non prevale il privato e la stanchezza.
Alcune domande-spunti di riflessione:
- come vivo la festa?
- uso la Domenica come gli altri giorni? Che gioia in più c’è oggi, perché ti ho incontrato?
E’ un interrogativo importante: i primi Cristiani si riunivano per fare “agape” un pasto consumato in comune con spirito di fraternità e l’eucarestia era un’esperienza comunitaria, non un fatto privato e personale;
- bisogna imparare a darsi appuntamento, perché nella corsa della vita non c’è possibilità di dedicarsi sempre attenzione, ma qua e là possono esserci spazi che riserviamo “a”, darsi quindi appuntamento é sapere che non c’è sempre lo stesso tempo ma esiste un tempo diverso, questa modalità consente di rivitalizzare l’attesa, di dare un peso diverso al desiderio: a quel punto viviamo in funzione di…
Ultime riflessioni su alcuni punti particolari:
- il ruolo: non dobbiamo avere a che fare con le persone assumendo il criterio del ruolo; non è il ruolo che identifica, c’è altro, c’è di più e questo è particolarmente importante oggi, perché c’è il rischio di non realizzarsi come persone;
- la libertà: cosa significa libertà? (non tanto schiavitù); libero è uno che fa ciò che vuole? Uno che non ha a che fare? Perché l’altro rischio è che la libertà consista nello stare chiusi, ognuno per sé;
- la gratitudine: messa a confronto con la desolazione; il terzo rischio è che noi non facciamo le Lodi al mattino e alzandoci non ringraziamo Dio per la nuova giornata. Combattiamo con noi stessi per non essere desolati e cerchiamo di essere grati.
- Ancora una riflessione sul fatto che negli ultimi 20-25 anni dedichiamo ogni due domeniche, una buona parte dello spazio della giornata della festa, agli incontri di questo percorso. Ma, al di là dell’educarsi a riservare le nostre domeniche a questi incontri, e al di là della nostra fedeltà, chiediamoci se il nostro ritrovarsi ci ha fatto crescere e se, soprattutto, ci unisce e ci rende gioiosi.
Lectio Divina
Natale del Signore
Da “Spe salvi”: giustificazione e retribuzione sono posture di futuro
22 dicembre 2024 - giornata di ritiro -
La nostra giornata si articola in diversi momenti: si inizia con i canti e si introduce e si inquadra il senso dell’espressione “rimetti a noi i nostri debiti”; dopo la pausa del pranzo condiviso l’intervento sulla speranza di don Shibu seguito dalla nostra collatio.
Si affronta il tema “rimetti a noi i nostri debiti”: la pace nasce dalla riconciliazione. Si parte dall’analisi di dati che risultano utili alla nostra riflessione. Il primo gennaio del 1968 Papa Paolo VI indiceva la Marcia della Pace. L’idea era di chiamare a raccolta i Cristiani che con la preghiera ed il camminare insieme da fratelli, supplicassero Dio di concedere la pace; il 30 novembre 1981, circa 20 anni dopo, l’ONU indiceva la Giornata della Pace, che viene celebrata, sempre, il 21 settembre; questa giornata vuole mettere l’accento su tutte le guerre che si combattono nel mondo, più o meno conosciute, le guerre locali e le guerre civili, come quelle dell’Africa. La giornata della Pace vuole portare all’attenzione, oltre le guerre, gli atti di violenza, nel senso che il primo passo affinché le ostilità finiscano risiede proprio nella consapevolezza comune che la guerra, comunque sia, è sempre ingiusta.
La differenza tra la Marcia della Pace e la Giornata della Pace è abissale; tra le due c’è l’abisso di Dio nel senso, che nella prima c’è la preghiera, mentre l’altra è una cosa puramente umana; dobbiamo quindi concludere che la Pace, la vera Pace non è assenza di guerre o di ostilità, perché in questo caso si tratta di “tregua”, e la guerra prima o poi ripartirà. La pace discende da Dio e alberga nel cuore degli uomini.
Il primo gennaio del 2025 la Marcia sarà ispirata proprio a questa espressione: ”rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo…”
Perché è stato scelto questo tema? Ci soffermiamo su tre parole, importanti, da comprendere, della frase di cui parliamo: “come” , “debiti” e “rimettere”.
Per quanto riguarda la parola “come”, se proviamo a ripetere il Padre Nostro, sembra quasi che siamo noi ad indicare a Dio “come”, ma sicuramente questa non può essere la giusta interpretazione:
Proviamo quindi a trovare un altro senso: “Faccio male ai miei fratelli. Perdonami. Io farò lo stesso con gli altri”. Si tratta di una promessa che facciamo e non manteniamo. Si tratta di un’ interpretazione puramente psicologica e che serve soltanto a mettere a posto la nostra coscienza.
Passiamo quindi alla vera interpretazione: Padre, Tu che sei nell’alto dei Cieli, Tu che sei Santo, con il Tuo aiuto, noi vogliamo diventare come Cristo che ha rimesso a tutti i propri peccati: ci rivolgiamo quindi a Dio perché ci dia la facoltà di essere come Cristo per rimettere i peccati agli altri.
Passiamo alla parola “debiti”. Nella versione del Padre Nostro è Matteo ad usare la parola “debiti”; Luca usa la parola “peccati”. Entrambi hanno tradotto dall’aramaico “hovah” che ha un senso sia economico che di peccato, Quindi Matteo usa il termine comune, mentre Luca usa quello più religioso, ma il termine “debito” ci parla in particolar modo di relazione, e si tratta di una relazione scomoda, pesante, che toglie tranquillità. Papa Francesco, commentando questa frase del Padre Nostro, ha detto che è una frase che non piace ai banchieri, che non perdonano i debiti, in questo mondo che ha al centro il denaro.
Ripensiamo alla storia di Israele; ogni sette anni c’era un anno sabbatico in cui si dovevano fermare le coltivazioni, in cui gli animali non dovevano portare il giogo, venivano anche azzerati i debiti e restituiti i pegni; ma c’era di più: nel caso qualcuno avesse fatto del male ad un altro, si liberava da questo peso. Inoltre ogni cinquant’anni c’era il Giubileo e, in quell’occasione, addirittura si azzeravano i contratti immobiliari e tutto tornava all’antico proprietario, almeno secondo quanto previsto dalla legge. Tutto ciò perché Dio diceva: “Ricordati che sei stato schiavo, pellegrino, e sei stato liberato. Ora devi rendere anche tu la libertà agli altri”, Anche questo parte da Dio, viene dato all’uomo, ma l’uomo deve darlo agli altri. Quindi l’uomo è chiamato a dare agli altri il perdono e la liberazione che provengono da Dio.
La terza parola è “remissione”: rimetti a noi i nostri debiti. La remissione è l’azzeramento definitivo e totale di ogni debito, che non sarà neanche più ricordato.
In Luca. 4, 16-21, Gesù inaugura la sua predicazione; siamo nella sinagoga di Nazareth, a Gesù viene consegnato un rotolo da leggere ed Egli legge: “Lo Spirito del Signore è sopra di me. Per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ridare la vista ai ciechi, per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. E continua: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”. Gesù, in quel momento, ha così dichiarato un giubileo ed è venuto a rendere tutto “nuovo”: dà la vista a coloro che sono nati ciechi mentre lo zoppo comincia a camminare; non cambia soltanto i peccati ma anche le cose materiali e inizia una nuova relazione con l’uomo, una relazione che fa tutti “nuovi”. Se il peccato è un debito e quindi la relazione si interrompe e appesantisce l’uomo, Gesù riavvicina e riconcilia, offre vita nuova.
Quindi, il peccato non è ciò che ci allontana dalla legge, ma ciò che ci allontana dal fratello. Se faccio del male ad un altro, lo tradisco, ma se torno indietro a riconciliarmi ho la remissione del peccato. Tutto viene da Dio attraverso Cristo e Cristo dà a noi la possibilità di riconciliarci e di offrire il perdono agli altri. Ma perdonare, come dice Papa Francesco, non è facile, perché per perdonare bisogna prima sentirsi perdonati.
In Luca 7, Maria Maddalena si stende ai piedi di Gesù, piange, gli asciuga i piedi con i capelli, gli versa profumo sui piedi mentre i Farisei sono scandalizzati perché una donna di dubbi costumi ha osato entrare e toccare il Maestro; ma il Maestro non la caccia affatto. Gesù si rivolge a Simone il fariseo, che era in quella casa e gli dice: “un creditore aveva due debitori, di cui uno gli doveva cinquanta denari e l’altro cinquecento; poiché i debitori non potevano restituire il denaro, il creditore condonò il debito a entrambi.” Poi chiede a Simone: “chi, dunque, di loro, lo amerà di più?” E Simone risponde: “Suppongo che sia il debitore a cui è stato condonato di più”. Gesù allora dice: “Hai giudicato bene, Simone”. Ma il giusto Simone non è in grado di capire chi perdona i peccati e va a spasso con i pubblicani, chi si rivolge alle prostitute, chi guarisce i lebbrosi…perché si sente giusto. Il problema è proprio questo, il sentirsi giusti.
Il risultato della remissione dei peccati è l’amore; il giusto non ama perché non si sente un debitore e non avverte il bisogno della remissione dei peccati, ma Dio ci dice che bisogna perdonare fino alla pienezza, settanta volte sette. Quindi ci sono due modi di vivere: credere in Dio da giusti o da peccatori perdonati. Dobbiamo lasciarci alle spalle la logica del dare e avere, che è tipica dei conflitti e delle guerre e abbracciare la logica di Dio, quella del “DONO” senza chiedere nulla in cambio.
Lasciamo a Cristo il perdono dei peccati e il fatto di occuparsi dei peccati nostri e degli altri…non ce ne dobbiamo preoccupare, noi dobbiamo impegnarci soltanto ad amare senza mai puntare il dito.
Allora il segno cristiano di chiedere perdono è rappresentato dalle lacrime, come Maddalena che attraverso le lacrime esprime la sua richiesta di perdono.
Invece il canto cristiano del perdono è il Salmo di Davide. Davide era un grande peccatore, pensiamo a cosa ha fatto ma è detto anche “amico di Dio” perché chiedeva a Dio di avere pietà e di creare in lui un cuore puro, di rinnovare in lui uno spirito sano. Questo è il canto di chi si sa peccatore e vuole essere perdonato. Un cuore è puro quando è capace di non recriminare, di non ricercare le colpe nel passato, quando è capace di perdonare e di far scorrere come acqua limpida la forza ed il perdono di Dio verso gli altri. La Bibbia è stata scritta da grandi peccatori e quando leggiamo le sue pagine dobbiamo sentirci peccatori perdonati e provare vergogna, saper innalzare inni, saper cantare, piangere, questa é la vera richiesta di perdono a Dio. Facciamo 3 esempi classici:
- Pietro piange amaramente quando il gallo canta
- Il buon ladrone che rimprovera il suo compagno dicendogli: ”noi riceviamo il giusto, Egli invece non ha fatto nulla di male”. E come dice Sant’Agostino con una piccola vergogna si è guadagnato il Paradiso
- E infine Giuda, un personaggio difficile…quando vede condannato Cristo, corre dai sacerdoti, quelli che si dicevano giusti e dice di aver sbagliato, ma riceve in cambio una porta chiusa e impazzisce per la vergogna. Papa Francesco ci dice che la storia di Giuda non è finita lì, con l’impiccagione. Su un capitello della Chiesa di Santa Maria Maddalena, a Vezelay, in Francia c’è scolpito da un lato Giuda impiccato e dall’altro il Buon Pastore che se lo carica sulle spalle. Quindi anche la disperazione è un modo di vergognarsi e noi dobbiamo essere attenti a quelli che si disperano e aiutarli a trovare la strada che li faccia sentire perdonati. Giuda, appunto, non ha trovato nessuno sulla sua strada…” Papa Francesco, addirittura, aggiunge: “Se avesse incontrato la Madonna sulla strada..”
La vergogna, quindi, è una grazia che noi dobbiamo arricchire. Il perdono ristabilisce le relazioni ma purtroppo dovrebbero esserci due voci in campo: chi ha fatto il male e chi l’ha ricevuto; spesso non è così e quindi il cerchio del perdono non si chiude perché chi ha fatto il male non ritiene di dover essere perdonato. Quindi noi dobbiamo soffrire per l’altro, amare settanta volte sette, non dimenticare perché non è questo il perdono, dobbiamo fare verità anche per l’altro, pregare in modo che questa riconciliazione, questa grazia possa raggiungerci anche se non sappiamo quando ciò avverrà.
Dostoevskij diceva che ogni uomo sulla terra è pieno di debiti con tutto il mondo, e dobbiamo accettare la logica di Dio, che entra nel nostro sangue… “come fosse una trasfusione” dice Papa Francesco.
Sant’Angela Merici suggerisce la gioia come vendetta verso gli altri che ci hanno fatto del male, così essi non avranno più potere su di noi. La nostra preghiera deve essere la richiesta a Dio di avere un cuore da fratelli per vivere nella gratitudine e nella gioia e perdonare gli altri.
E infine la domanda conclusiva su cui riflettere: è veramente possibile per l’uomo auspicare, credere, sognare che il mondo entri nella pace completa?
Partiamo dalle nostre famiglie e comunità: cosa serve per arrivare ad una pace? Forse meglio dire una “tregua” più che una pace. Ecco, la vera domanda è proprio questa: qual è la differenza tra pace e tregua?
Alla lectio di Maria, dopo la pausa del pranzo, è seguito l’intervento di don Shibu che si è dedicato, nel segno della speranza, al quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà” (Dt. 5.16).
Dopo aver letto il comandamento da Esodo 20.12 nel testo originale, in ebraico e greco, Don Shibu cita gli altri riferimenti della Bibbia al quarto comandamento: Deuteronomio 5.16, e nel Nuovo Testamento Matteo 15.4, Marco 7.10, Luca 18.20, Lettera agli Efesini 6.2.
Questo comandamento ci parla dell’onore dovuto ai genitori ed il termine usato nella lingua originale ebraica “kappod” significa letteralmente dare peso, importanza, o una particolare attenzione; viene usato anche per dire “gloria dovuta a Dio”, o culto religioso che dobbiamo dare al Signore nel segno della nostra riconoscenza verso di Lui, per la Sua esistenza nel mondo ed in tutto l’universo. Onoriamo il Signore riconoscendo la Sua realtà e la Sua vera identità. Il fatto che usiamo lo stesso termine per l’onore verso i genitori ci dà davvero il senso del grande significato del comandamento. Onoriamo i nostri genitori anche con atti concreti, di attenzione, dedizione, affetto e cura.
Come abbiamo già meditato insieme, possiamo dividere i comandamenti in due blocchi: nella prima tavola abbiamo i tre comandamenti che parlano dell’amore verso il Signore mentre nella seconda tavola ci sono i comandamenti che riguardano l’amore verso il prossimo.
Stiamo affrontando il primo comandamento della seconda tavola, quello appunto che ci chiede di onorare i genitori; si tratta dell’unico comandamento che si conclude con una benedizione, il prolungamento della vita e la felicità. In questo comandamento sono presenti anche gli elementi dell’obbedienza e del rispetto verso i genitori. Vediamo gli altri riferimenti: ricordiamo che in Esodo 21 versetto 15 è detto “ Colui che percuote suo padre e sua madre sarà messo a morte; il versetto 17 dello stesso capitolo dice “ Colui che maledice suo padre e sua madre sarà messo a morte”. In Deuteronomio 27.16 è detto: “Maledetto chi maltratta il padre e la madre”. Nel Levitico 19.3 si dice “Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre” ; e nei Libri Sapienziali, in particolare nel Libro dei Proverbi si dice ”Chi rovina il padre e fa fuggire la madre è un figlio disonorato e infame” e ancora “Chi maledice il padre e la madre vedrà spegnere la sua lampada nel cuore delle tenebre”. Sempre nel Libro dei Proverbi 23.22 “Ascolta tuo padre che ti ha generato, non disprezzare tua madre quando sarà vecchia”. San Paolo nella lettera agli Efesini dice “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto”.
“Onora tuo padre e tua madre “ è il primo comandamento accompagnato da una promessa: perché tu sia felice e goda di una lunga vita sulla terra. Anche nella collezione Upanisad degli scritti religiosi e filosofici sanscriti troviamo questa frase: “Onora tua madre come Dio, onora tuo padre come Dio, onora il tuo maestro come Dio, onora il tuo ospite come Dio. Ma perché dobbiamo dare questo onore e rispetto ai nostri genitori? Perché i nostri genitori restano sempre più importanti di noi, e dobbiamo ringraziare il Signore e loro per il fatto di essere qua; senza di loro non potremmo esserci ed il rapporto con loro è per noi importantissimo. Essi rappresentano il segno tangibile che non possiamo generarci da soli; un uomo e una donna possono dare la vita a un bambino o a una bambina ma da soli non possiamo generarci, possiamo semmai, in qualche modo, modificarci ma non abbiamo la possibilità e la potenza di crearci, non siamo padroni della nostra vita. In un certo senso i genitori, nella procreazione, sono collaboratori di Dio; anche nella cultura indiana, dopo il rito del matrimonio, il figlio, in segno di venerazione e rispetto verso i genitori si prostra davanti a loro e ne riceve la benedizione. In definitiva possiamo dire che i genitori sono nostri amici, collaboratori, sempre pronti ad aiutarci, grazie a loro abbiamo fatto tutto il nostro cammino.
Il capitolo 7 versetti 27 e 28 di Siracide continua: “Onora tuo padre con tutto il cuore, non dimenticare i dolori di tua madre, ricorda che essi ti hanno generato, e che darai loro in cambio quanto ti hanno dato.
Tutti dobbiamo ricordare questo, specialmente i nostri giovani: i genitori sono il segno concreto dell’amore di Dio verso ogni persona, in qualsiasi momento.
Anche i doveri dei genitori riguardano la formazione della famiglia, con una casa in cui vivono l’uomo, la donna e i figli, nella quale assumono le loro responsabilità e compiono un servizio disinteressato verso i figli, mostrando anch’essi rispetto nei loro confronti. “Padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore” (San Paolo nella lettera agli Efesini). Quindi, dobbiamo anche avere cautela quando educhiamo nella libertà, e non dobbiamo cercare di rendere i figli a nostra immagine e somiglianza; tutto molto facile a parole ma complicato nella realtà. Chiediamo quindi al Signore la grazia di questa grande saggezza e l’aiuto dello Spirito Santo, fondamento di tutto. Riconosciamo il giusto valore e la vera identità del Signore. E’ anche importante che i figli siano coinvolti dai genitori nel cammino spirituale e che comprendano il valore, nella famiglia, della partecipazione alla messa e alle celebrazioni religiose.
Nel Deuteronomio Capitolo 8, è possibile vedere la paternità di Dio, il Signore come Creatore, come Liberatore, come Colui che sostiene e disciplina il popolo di Dio e dopo le tentazioni, e i tanti problemi che servono ad aiutarlo a capire, dà la manna agli uomini come simbolo della Provvidenza di Dio.
Attraverso la paternità di Dio possiamo comprendere anche la nostra paternità e maternità; anche noi genitori siamo creatori, tra virgolette, e dobbiamo provvedere, attraverso il lavoro, ai bisogni dei nostri figli, mantenendo, in un certo senso, l’ Alleanza tra Dio e gli uomini.
Sant’Agostino dice che i genitori sono il primo libro che i figli leggono; anche il poeta latino Giovenale dice che i vizi che i genitori trasmettono ai figli sono numerosissimi; i cattivi esempi che vengono dalla famiglia corrompono più in fretta e più a fondo perché penetrano nell’animo attraverso modelli autorevoli.
Spesso non basta il catechismo per i bambini ma è necessario educare i giovani genitori che costituiscono il ponte tra i nonni e i nipoti. E dobbiamo adoperarci in modo che i genitori siano in grado di indirizzare i figli verso la giusta via.
E’ molto importante che nella casa, non ci sia soltanto sicurezza ma ci sia amore e intimità, che ci sia il giusto tempo e il dialogo nella condivisione del pasto, e non la logica del fast food. Questo anche perché i figli si rendano conto delle fatiche e dei sacrifici dei loro genitori.
Anche Gesù ha avuto i genitori, la famiglia, amici e parenti come uno di noi. Ha cercato di condividere la nostra stessa esperienza, in una vera comunione. Attraverso l’incarnazione ha vissuto come uno di noi e con il Suo corpo ha creato un legame con gli uomini. Il corpo è uno strumento, anche per noi, per entrare in relazione e creare comunione con gli altri.
Torniamo, per riprendere il discorso dell’amore verso i genitori, alla figura di Gesù e al miracolo di Cana, quando Gesù dice ”non è ancora il mio tempo”. Ma Maria interviene con sicurezza e chiede che siano seguite le istruzioni di Gesù e Gesù si dispone a dare inizio ai suoi miracoli.
Il senso di condivisione e di comunione con gli altri è fondamentale in questa epoca di egocentrismo, in cui la vita del singolo è centrale e non c’è interesse per gli altri. Per questo è fondamentale il ruolo della famiglia, questa cellula originaria, in cui i genitori danno il senso della speranza ai propri figli. Attraverso la preghiera possiamo aiutare gli altri a superare l’egoismo. Concludiamo riconoscendo il valore e l’importanza dei genitori nei confronti dei figli, che costituiscono dei tesori anche per la Santa Chiesa.
In conclusione della giornata di ritiro padre Gianni ci dà ancora qualche spunto di riflessione e tornando al tema dell’onorare i genitori, osserva che c’è un legame profondo tra quello che si definisce rispetto e le ferite profonde che ci teniamo dentro e che provengono dalla nostra infanzia. Quello che siamo da adulti è il risultato di ciò che siamo stati da bambini e per molte persone non c’è verso di modificare e far diventare altro ciò che ormai si è strutturato nel comportamento e nelle ricostruzioni più o meno realistiche che sono state fatte.
Padre Gianni ci dice che il collegamento più intenso che ha ritrovato è il fatto che il quarto sia l’unico comandamento “motivato”; mentre gli altri comandamenti sono affermazioni categoriche e indicazioni precise, questo è chiaramente esortativo. Nello stesso tempo il legislatore, l’autore sacro, ha ritenuto necessario dare una ragione, una duplice ragione: da una parte l’aver a che fare con il futuro “perché si prolunghino i tuoi giorni”, la questione importante della continuità della vita, la cosa che più desideriamo, e dall’altra la cosa bellissima e che tanto ci interessa “perché tu sia felice”.
Pensando al fatto che quest’anno è stato dedicato al rispetto, ci chiediamo: come si fa ad educare al rispetto? Ma al di là dei metodi educativi che impongono il rispetto alla vecchia maniera, in realtà l’apprendimento di questo valore non richiederebbe la violenza, perché si esprime anche nel non-detto. E dietro alle esperienze personali e familiare c’è la “fatica dell’autorità”, è in gioco una questione di autorevolezza che riguarda non soltanto il padre e la madre ma tutte le figure che, in qualche modo, costituiscono un riferimento