Lectio Divina 2024/2025 - Parrocchia Sacro Cuore

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Lectio Divina 2024/2025

CALENDARIO LECTIO DIVINA 2024-25
         
Sacro Cuore   – 00055 Ladispoli
  
Fiordalisi   14 – parpalo@libero.it
       
 
         
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Tra attesa di futuro
  
e salvezza già presente
       
 
         
Lectio divina   di Decalogo e Beatitudini:
  
la Speranza nasce da un’Alleanza e dà
  
compimento ad una Promessa
       
 
         
Riferimenti   biblici:
  
il Decalogo in Esodo e Deuteronomio,
  
le Beatitudini nei vangeli di Matteo e Luca.     
 
         
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II e IV domenica del mese
       
 
         
Ore 15.30   preghiera delle   Ore
  
Ore 15.30   Meditazione e silenzio
  
Ore 17.30   Coll-actio e Magnificat
  
Ore 18.30   Chiusura e Vita

       
 
         
A. RITIRI TEMPI FORTI
       
 
         
Domenica 13-10   Tempo iniziatico
  
Da   ‘Spe salvi’: preghiera e sacrificio sono luoghi   generativi di speranza
  
Domenica 22-12   Natale del Signore
  
Da   ‘Spe salvi’: giustificazione e retribuzione sono posture di futuro
  
Domenica 13-4 Settimana Santa
  
Da   ‘Spe salvi’: ci sono una speranza individuale ed una più universale
  
Domenica 22-6   Verifica finale
       
 
         
Da   ‘Spe salvi’: felicità qui-ora e ricompensa nel Regno dei cieli?

       
 
         
B. LECTIO DIVINA
       
 
         
domenica 27-10:   Prologo ed Epilogo delle   Dieci Parole: ragione e finalità di   una Regola.
  
domenica 10-11: Non avrai altri   dei. Non ti farai   idolo. L’affermazione dell’Unicità di Jhwh.
  
domenica 24-11:   Non pronuncerai il Nome   invano. Il rispetto del Reale dell’A-altro da me.
  
domenica 8-12:   Ricordati del giorno di Shabat. Il riscatto dalla   condizione che asservisce.
       
 
         
+
  

       
 
         
domenica 12-1: Onora tuo padre ‘e’   tua madre. La continuità di   vita nasce da una storia.
  
domenica 26-1:   Non ucciderai. Non commetterai adulterio. I valori   chiedono riconoscimento.
  
domenica 9-2: Non ruberai. Non   pronuncerai falsa testimonianza. Non il potere ma il giusto.
  
domenica 23-2: Non desidererai la casa..la moglie del tuo   prossimo. Educare i movimenti.
 
         
+
  

       
 
         
domenica 9-3: Beatitudini dei poveri e degli afflitti: la vera forza   è il bisogno   interiore.
  
domenica 23-3: Beatitudini dei miti   e affamati di giustizia: finalizzare la reattività.
       
 
         

  
+
       
 
         
domenica 27-4: Beatitudini dei misericordiosi e puri di cuore: tutto si gioca dentro.
  
domenica 11-5:   Beatitudini dei pacificatori e perseguitati a causa: una   alternativa c’è.
  
domenica 25-5: Beatitudini e Regno nel vangelo di Luca. Solo IV prospettive.
  
domenica 8-6: Guai e persecuzioni nel   vangelo di Luca. Cosa accade all’inverso.

       
 
         
C.   CENACOLI DOMESTICI
       
 
         
o Domenica 16-11 Giornata della   povertà
       
 
         
o Domenica 26-1 Giornata della Parola
  
o Lunedì 24-3 Giornata dei Martiri missionari
  
o Sabato 24-5 Giornata della Laudato sii

       
 
         
D.   SENSO DI UNA RICERCA
  
▪Ogni carisma   è mosso dallo Spirito   per un servizio, tutto da inventare, ma chiamato a
  
dare risposta ad un bisogno della situazione, per essere luogo   d’incontro col Mistero.
  
Immersi nelle realtà del mondo e nell’amore di Dio mediante il Battesimo, il Signore ci
  
chiama a riemergere   come nuove creature e percorrere la via della   debolezza.
  
Chiamati   ad essere con gli   altri a partire da quel che siamo   con Lui, abbiamo come primo
  
compito quello   di ‘capire’ la Parola noi, se vogliamo ridirla   a chi oggi non la comprende.
  
Aiutare a discernere, ad incontrarsi col fallimento riscoprendovi libertà di pensiero e di
  
movimento, stiamo   dinanzi a forme nuove   di vita in Cristo e non più a vecchi schemi.
  
E’ con le storie   che nascono dal vivere con Dio che possiamo farci compagni di strada,
  
stando nella   Chiesa come cercatori di una   sintonia non più tanto di un ministero.
  
Se volete   fare un cammino   possiamo provarci; se non c’è il senso   di coinvolgimento non
  
basta e grazie.   Non c’è più la chiesa   di appartenenza, ma quella di riferimento sì.
       
 
         
n.b. per info   e iscrizione, rivolgersi a don Gianni 377.1812004 o sig.a Maria 347.9445979
  
le giornate di ritiro sono dal mattino   ore 11 celebrazione eucaristica al sacro cuore
       
 
         
nel 25° anno di questa oasi della Parola,   dopo aver percorso Genesi, Esodo, I e II Re, Sapienza
  
Siracide e Cantico, Isaia, Ezechiele e Geremia, i Salmi, i Vangeli gli Atti Corinzi e Apocalisse.
       
 
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Introduzione alla lectio
 
Il valore della Parola e dell’ascolto
 
Il tratto di Dio è la vicinanza: il Dio vicino, con quella vicinanza compassionevole e tenera, vuole sollevarti dai pesi che ti schiacciano, vuole riscaldare il freddo dei tuoi inverni, vuole illuminare le tue giornate oscure e sostenere i tuoi passi incerti. E lo fa con la sua Parola, con essa ti parla per riaccendere la speranza dentro le ceneri delle tue paure, per farti ritrovare la gioia nei labirinti delle tue tristezze, per riempire di speranza l’amarezza delle solitudini.
 
La Parola di Dio non serve per intrattenerti o per coccolarti in una spiritualità angelica, non si riduce a culto esteriore, che non tocca e non trasforma la vita; deve spingerti fuori da te per metterti in cammino incontro ai fratelli e per accostarti alle loro ferite.
 
La Parola ti provoca e ti scuote, ti riporta alle tue contraddizioni, ti mette in crisi, ti spinge a uscire allo scoperto, a non nasconderti dietro la complessità dei problemi, dietro il “non c’è niente da fare”.
 
Tratto dalla Messa della Domenica della Parola di Dio del 23 gennaio 2022 celebrata da Papa Francesco
 
 
L’ascolto è una dimensione dell’amore. L’ascolto richiede la virtù della pazienza, e la capacità di lasciarsi sorprendere dalla verità, fosse pure solo un frammento, nella persona che stiamo ascoltando. Prendiamo esempio dallo stupore dei bambini.
 
Dare gratuitamente un po’ del proprio tempo per ascoltare le persone è il primo gesto di carità.
 
Tutti abbiamo orecchi ma non riusciamo ad ascoltare: c’è una sordità interiore; chiediamo a Gesù di toccarla e risanarla: E’ peggiore di quella fisica, è la sordità del cuore.
 
Il primo comandamento del Vangelo ci chiede di essere attenti e di prestare attenzione. Gesù è la Parola: fermiamoci ad ascoltarlo. L’ascolto è la via maestra per riannodare i fili dei dialoghi interrotti.  La rinascita del dialogo passa dal silenzio, dal cominciare con pazienza ad ascoltare le fatiche dell’altro. La guarigione del cuore comincia dall’ascolto.
 
Tratto dall’Angelus del 5 settembre 2021 e dal messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali del 29 maggio 2022 sul tema “Ascoltare con l’orecchio del cuore”
 
 
Alcuni suggerimenti di metodo
 
-          La lectio divina è lettura a due, è un colloquio con Dio. L’atteggiamento fondamentale nella lettura della Parola di Dio  richiede l’aiuto dello Spirito che in essa è contenuto e in essa riposa; è racchiuso in queste parole di San Giovanni Crisostomo: “Signore, apri i miei occhi e il mio cuore affinché io comprenda e compia la tua volontà”.
 
 
-          La Bibbia si legge con la penna in mano e non soltanto con gli occhi” (card. C.M. Martini). “Essere colpiti” da una frase è grazia, richiamo, stimolo, segno di interesse, sollecitazione, provocazione: è colloquio con un testo “vivo”…Questa attenzione viene spesso trascurata, soprattutto quando si pensa di conoscere il testo e di averlo letto e ascoltato tante volte…
 
-          La lectio è una lettura “intelligente”, è un lavoro impegnativo ma necessario, da cui dipende l’esito dei passaggi successivi del percorso; deve mettere in risalto gli elementi portanti del brano, evidenziare il contesto, per orientarsi al senso corretto del testo; vanno colti la struttura, i personaggi, le azioni, gli atteggiamenti, i sentimenti, le parole chiave. Si scopriranno così elementi che a una prima lettura, distratta o affrettata, passano inosservati; troveremo nuovi indizi anche se conoscevamo il brano quasi a memoria. Cerchiamo i riferimenti di episodi, parole e frasi simili presenti nella Bibbia e analizziamoli  cogliendo somiglianze e differenze. E’ questo, uno studio e una ricerca importante con cui la Parola ci raggiunge ed entra in noi.
 
-          Nella meditatio sostiamo sugli elementi principali e chiediamoci qual è il messaggio con cui Dio ci interpella attraverso le parole del testo. “Quando leggi la Parola di Dio, bisogna che ricordi di dirti senza interruzione: è a me che si rivolge, è di me che si tratta. Quindi, applica tutto il testo a te” (Kierkegaard).
 
-          Con l’oratio trasformiamo in preghiera la nostra meditazione, entrando nel sentimento religioso che il testo suscita. Si tratta di parlare con Dio in preciso riferimento alla Parola meditata. “Signore, cosa vuoi che io faccia?” (S. Francesco d’Assisi).
 
-          La contemplatio è guardare sé stessi,  tutto e tutti con lo sguardo di Dio e non con il nostro occhio umano; è il momento del colloquio intimo  tra noi e  il Padre.
 
-        La collatio conclude la lectio comunitaria; non ha finalità di discussione ma serve a comunicare le risonanze personali della Parola, i dubbi e le reazioni suscitate dal testo. E’ il momento della condivisione. Ognuno vede il fratello e/o la sorella in una nuova dimensione, orientata verso un progetto comune; si scopre che essere fratelli e sorelle vuol dire indicare  gli uni agli altri la strada da percorrere, camminando insieme. E per questo non si danno giudizi, ma si esprime accoglienza, apprezzamento e gratitudine.
 
 
 
Tratto dalle Regole fondamentali della lectio di  Fra Domenico Marsaglia
 
Frati Domenicani dell’Italia settentrionale

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Lectio Divina
Tempo iniziatico
 
Da “Spe salvi”: preghiera e sacrificio sono luoghi generativi di speranza
 
13 ott 2024  - giornata di ritiro -
 
 
In questo anno parleremo della speranza, vista con gli occhi dei Dieci Comandamenti e quelli delle Beatitudini, con particolare riferimento, nelle quattro giornate di “ritiro tempo forte”, alla “Spe salvi” di Papa Benedetto XVI.
 
Utilizzeremo per la nostra meditazione cinque riflessioni sulla speranza: una di un monaco, una di un laico e le altre di tre papi (allegato documento “preghiera e sacrificio come luoghi generativi di speranza”).
 
La  “Spe salvi” di papa Benedetto è ritenuta, da teologi e vescovi, una lettera molto profonda e teologica, rivolta più ai sacerdoti che ai laici; non ci sono, infatti, riferimenti al Concilio Vaticano II né al IV Convegno ecclesiale di Verona che, rispettivamente con la  costituzione pastorale “Gaudium et Spes” e con i documenti relativi al tema “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo” mettevano in maggior risalto il pensiero laico, riconoscendone valore e meriti. La “Spe salvi” è teoretica.
 
Mons. Menichelli dice che la speranza è di tutti perché l’uomo ha bisogno di amare e di sentirsi amato; e l’amore serve per vivere e per morire. La lettera di papa Benedetto apre degli orizzonti sulla vita eterna, più che sulla speranza umana. Cercheremo dunque di aggiungere alla lettura della “Spe salvi” un più ampio respiro, avvalendoci dei contributi del Concilio Vaticano II, del Concilio di Verona e tenendo conto anche del nostro contributo, della “nostra” speranza e di ciò in cui crediamo.
 
La “Spe salvi” si apre  con una frase di San Paolo Apostolo nella lettera ai Romani (Rm 8,24): “nella speranza siamo stati salvati”. Prosegue con un’affermazione: “il presente, anche faticoso, può essere vissuto ed accettato, se conduce verso una meta, e se, di questa meta, noi possiamo essere sicuri,  se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”.
 
Poniamoci questa domanda: il Cristiano che vive nel continente europeo, sempre più vecchio e sempre meno cristiano, ha ancora motivo di sperare?.
 
E ancora: c’è una logica nel formarsi e formare in una fede che appare in caduta libera? Che cosa spera il Cristiano di fronte ai fatti del mondo? Bisogna rinvigorire la fede, non nei contenuti, che non si toccano, quanto nel ritrovare la gioia e l’entusiasmo che caratterizzavano le prime comunità cristiane.
 
Pensiamo ai due discepoli di Emmaus che scendono da Gerusalemme; sono pieni di tristezza; ma poi incontrano lo straniero e gli danno il crisma della fede, parlandogli del Maestro e delle cose che diceva, per accorgersi, alla fine, allo spezzare del pane, che si trovano proprio davanti a Gesù. Allora, in piena notte, risalgono di corsa verso Gerusalemme e con gioia annunciano di aver incontrato Gesù.
 
Prima sono tristi e disperati ma l’incontro con Gesù li riempie di speranza e riversano subito quella speranza agli altri.
 
Il Cardinale Martini ci dice che troppo spesso il nostro è un annuncio a metà, ineccepibile dal punto di vista teologico ma freddo e vuoto di forza comunicativa; la speranza deve fecondare la nostra vita e l’annuncio, da parte di tutti,  deve essere dato con gioia e nella sua bellezza, senza formule che rimangono distanti.
 
Bruno Forte dice che la vera penuria dell’uomo di oggi è quella speranza che va al di là della speranza: l’uomo ha bisogno di amare e di essere amato per vivere e per affrontare anche la morte; tutte le nostre esperienze sono segnate dalla fragilità della vita, dalla caducità del tempo, abbiamo bisogno di sperare che l’amore vinca ogni ingiustizia e risani ogni ferita. Quindi solo una grande speranza può dare senso alla vita e andare  al di là di ogni speranza. Dobbiamo essere capaci di amare anche superando la nostra stanchezza di vivere, quella stanchezza che ci prende quando le cose vanno male, quando non ci sono spiragli, quando siamo amareggiati. La speranza ci fa affrontare il presente e attendere i cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Pietro nella sua seconda lettera. La speranza non si conquista, è un dono dello Spirito ma deve fiorire; e i fiori sono i gesti d’amore compiuti continuamente dalle persone. Se questi fiori venissero soltanto dagli uomini cadrebbero, invece i fiori della speranza rimangono vivi nei cuori di chi li vede.
 
Per questo bisogna riconoscere Dio nelle cose quotidiane, affinché nessuno rimanga senza speranza. Nella Lettera  ai Pagani Paolo dice proprio: “Voi siete senza speranza, non perché non accederete alla vita eterna, non è questo il senso; siete senza speranza perché non conoscete Dio, non siete lieti, non avete la gioia”.
 
Queste parole di San Paolo potrebbero essere rivolte anche a noi…
 
La lettera enciclica “Spe Salvi” individua quattro luoghi della speranza.
 
·         la preghiera: se non mi ascolta nessuno, Dio mi ascolta; se nessuno può aiutarmi, Dio può;
 
·         l’agire: la fede è attiva ed è a favore dei fratelli. Si lotta per un mondo più umano; “sono amato e quindi, devo amare”;
 
·         il soffrire: bisogna fare di tutto per diminuire la sofferenza, ma bisogna anche saperla accettare perché da essa germina il seme; ricordiamo il seme che marcisce e muore e che porta molto frutto. Il senso della sofferenza, però, si trova soltanto stando accanto a Cristo.
 
·         Il giudizio divino: è l’ultimo luogo della speranza ed è credere nella resurrezione, credere che esiste la fine della sofferenza attraverso una giustizia divina che ripara e ristabilisce; significa  però credere anche che questa giustizia è grazia e amore.
 
Torniamo ai primi due ambiti della speranza: la preghiera e l’agire.
 
La preghiera è rivolgersi al Padre per tutto ciò che riguarda il mondo ed è esterno a noi. Se anche gli altri pregano per noi, tutti siamo compresi nella preghiera.
 
L’agire è il darsi da fare;  non ci sono soltanto le preghiere comunitarie o le preghiere personali; preghiera è un lungo elenco di azioni: preghiera é Caritas, preghiera è volontariato, preghiera è il battersi per ogni ingiustizia, per i diritti dei bambini, i diritti dei disabili, i diritti delle donne, per i paesi poveri, quelli in guerra, per l’ambiente. Anche il fatto che noi cattolici leggiamo, ci aggiorniamo, ci confrontiamo, contestiamo oppure apprezziamo, ci scontriamo tra noi, e a volte con Dio, per capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ed il fatto che usiamo la nostra ragione e libertà per nuove idee, per l’accoglienza di tutti, anche tutto questo è preghiera ed è speranza.
 
Speranza, quindi non è un Dio-ricompensa, ma è un Dio che si è fatto uomo e che ci aiuta ad avvicinare gli altri con la gioia.
 
Il Vangelo, se letto senza gli occhi della speranza diventa soltanto un racconto; se letto con la speranza e con la gioia diventa comunicazione che produce fatti, che cambia la vita.
 
Nella Chiesa di oggi, la maggior parte dei fedeli è invisibile: chi conosce poco la Parola, chi non va a Messa; invece la base della Chiesa è l’uomo e noi siamo chiamati a vedere i piccoli doni della speranza ovunque, anche in quelle persone che vediamo sempre “immerse nel traffico della vita quotidiana”. Dobbiamo guardare anche lì per trovare i doni della speranza, non possiamo semplicemente andare in  Chiesa, perché la vera Chiesa è anche l’uomo, l’uomo comune, che sa donarsi agli altri. Dobbiamo quindi toccare un Dio che apprezza l’uomo per come è, perché tutti sono apprezzati da Dio e nessuno viene abbandonato, seguendo vie che non possiamo prevedere né incasellare. Ci stupiamo e ci scandalizziamo se la Chiesa fa gesti eclatanti di accoglienza senza renderci conto di quanti, infiniti, ne faccia Dio seguendo vie molto diverse dalle nostre.
 
La preghiera è scuola della fede e della speranza ed esse  producono nell’uomo il risveglio di tutti i sensi e la resistenza. Papa Francesco, infatti, definisce la speranza “concreta”, qualcosa che “si tocca”, e la sua origine è la nascita, non la morte; non si tratta del fatto che, alla fine, avremo il Paradiso. La nuova vita  è nuova speranza.
 
La preghiera insieme a Cristo, dunque, fa parte della spiritualità dei “sensi vigili”: ci fa vedere Cristo che opera in terra, ci fa sentire la Sua Parola, ci fa toccare il bisognoso, ci fa sentire il profumo della speranza, quella che ci dà la forza e la resistenza per accettare la sofferenza; ma per resistere e accettare ci vuole anche qualcos’altro; per arrivare al culmine della speranza dobbiamo prima provare la consolazione ed il compatimento. Entrambe le parole hanno la radice con, a significare “essere con”, “far parte di”; recano il concetto di essere insieme a chi soffre, quindi, non possiamo avere una speranza solo per noi, dobbiamo avere una speranza per tutti. E a questo arriviamo soltanto  se  consoliamo e  compatiamo gli altri.
 
Bernardo di Chiaravalle dice che “Dio non può patire ma com-patisce” e noi, dobbiamo essere come Dio, dobbiamo saper compatire; da questo arriva la speranza.
 
Un uomo, in cerca di amore, affiancato dalla speranza, ha la possibilità di cambiare. Se noi, quindi, riusciamo ad avvicinare una persona, portando con noi la speranza, questa persona, magari lontana da noi mille miglia, oppure non veramente buona, ebbene, quella persona, attraverso la speranza,  il nostro compatimento e la nostra preghiera, può cambiare.
 
 
Domande-spunti di riflessione: la nostra preghiera è aperta alla speranza? Produce frutti?
 
 
Parliamo ora della sofferenza: è trattata nei paragrafi 37, 38 e 39 della lettera enciclica “Spe salvi”. Il Papa esordisce con queste parole: “La sofferenza fa parte dell’esistenza umana, scappare non è possibile.” Possiamo dire che in realtà la sofferenza fa parte di tutta la creazione, e non riguarda soltanto l’uomo. Costruirci luoghi personali dove il male non può toccarci è un’inutile speranza, perché equivale a costruire luoghi vuoti e solitari. Quando riusciamo nell’intento, ci chiudiamo in una stanza e non ci importa di nessuno, non perché siamo cattivi ma perché non vogliamo soffrire; allora, sì, sottraendoci ai contatti possiamo evitare le sofferenze morali  ma non potremo sfuggire a  quelle fisiche o a quelle causate dagli eventi naturali (es. terremoti, ecc.). Ricordiamo il periodo della pandemia da Covid…quanta solitudine, distanziamento sociale, ma non è nata nessuna speranza; anzi, molte persone si sono ritrovate senza speranza, alcuni continuano a mantenere il distanziamento sociale…quindi non troviamo la speranza né eliminiamo la sofferenza costruendo un bunker intorno o dentro di noi, alzando barriere che ostacolano la compassione e creano distanze.
 
La sofferenza, dunque, deriva dai limiti dell’uomo: che fare?
 
Una possibile risposta è nel suddividere la sofferenza di tutti, sulle spalle di tutti, ma la nostra società, e noi stessi, non arriviamo a questa soluzione. Pensiamo alla guerra: ci chiediamo cosa potremmo fare, ma in realtà non facciamo nulla e continuiamo a mandare le armi; facciamo manifestazioni, spendiamo tante parole, diciamo che non è giusto, ma in realtà, a parte le armi, non diamo nulla a questi popoli in guerra. Pensiamo a quando nasce un bambino con handicap; cosa succede? Lo Stato é totalmente assente, accade che qualcuno della famiglia si defili, qualcuno si concentra sul lavoro perché magari, a causa di quel bambino c’è più bisogno di soldi..
 
Certamente in casi come questi, le persone hanno bisogno di speranza, con Cristo che sarà senz’altro accanto a noi. Quindi, di nuovo, chiediamoci: “dov’è la speranza nella nostra società? Manca compatimento e preghiera. Ma Gesù ci ha detto una cosa importante: “A chi ha fame date da mangiare”. Non ha detto: “A chi ha fame parlate di me e dite che c’é la vita eterna..” Piuttosto ha detto: “Per prima cosa, date da bere, da mangiare, date ciò che serve…”.
 
Nella “Spe Salvi” si dice che l’uomo deve accettare di soffrire per amore del bene, della verità e della giustizia. Ma c’è bisogno di un “noi” che aiuti i singoli e gli oppressi. Dobbiamo metterci insieme e riscoprire la speranza, non soltanto quella escatologica, ma quella “concreta”, come dice Papa Francesco, reale e che sappia dare una meta, perché può accadere che qualcuno, disperato, abbia soltanto bisogno di vedere una meta davanti a sé. Nel caso in cui fossimo noi, mandati davanti a quella persona, dovremmo essere in grado di dare una meta, attraverso la nostra speranza, senza parlargli di vita eterna.
 
Il dolore trova un senso perché rafforza i legami umani, rende più umani, rende credibile l’amore, fa scoprire un Dio che non abbandona e accende la speranza, ma se a tutto questo non si accompagna la compassione, l’uomo è ancora nella notte; è come se tutti noi fossimo i discepoli di Emmaus che però, non hanno incontrato Cristo e che, quindi, non sanno tornare indietro verso Gerusalemme, con gioia.
 
Altre  domande-spunto di riflessione:
 
-          siamo capaci di soffrire per amore?
 
-          gli altri sono importanti per noi?
 
-          per me, la verità è così importante, da accettare la sofferenza che mi può causare?
 
-          la promessa dell’amore di Dio giustifica il dono di me stesso?
 
 
Riflessioni conclusive di don Gianni
 
Nell’arco di questi anni siamo passati attraverso eventi che hanno messo in discussione la nostra speranza: pensiamo al  contagio, con tutte le morti che ci sono state, alle guerre con altrettante morti, alla crisi climatica. Noi diamo per consolidate cose che non lo sono…se, per caso domani un asteroide, spostasse in maniera infinitesimale l’asse terrestre, tutto finirebbe. Insomma, in questi anni abbiamo fatto l’esperienza della precarietà, del fatto che non c’è certezza: della salute, del posto di lavoro…
 
Pensiamo a questo tempo che ci mette di fronte a qualcosa a cui, forse non siamo preparati; siamo convinti cioè che la vita, alla fine continua…per noi è sufficiente che la vita vada avanti, bene o male; invece qualche volta la vita si ferma. Ci sono storie che si interrompono.
 
Intorno a questo, si suggerisce di leggere “Spe salvi”, e di comprendere la differenza tra speranza individuale e speranza collettiva, perché molto opportunamente il Santo Padre Benedetto XVI ci spiega che a fronte di una esplosione di speranze individuali, è morta definitivamente la speranza collettiva. Noi non siamo più capaci di sognare insieme, di avere orizzonti positivi; ognuno si ricava la sua piccola fetta di torta e mira soltanto a quella, non curandosi del resto.
 
Invece pensiamo al sen. Agnelli, che organizzava le colonie, i cineforum e altre iniziative per gli operai perché capiva che è da un bene comune, da una vita condivisa che nasce la motivazione personale a spendersi e a mettersi in gioco.
 
Meditiamo sulla figura di  Mosè che conduce il popolo d’Israele attraverso il deserto e ad un certo punto arriva al monte Nebu; Jahvé gli dona di vedere la Terra Promessa - ricordiamo  un’immagine bellissima di Papa Giovanni Paolo II che  contempla tutto Israele - ebbene Mosè non vedrà da vicino la Terra Promessa ma soltanto dall’alto del monte. Questa cosa, considerata una sorta di castigo, in realtà sta semplicemente a significare che Mosè ha fatto ciò che doveva, ha dato compimento alla sua missione e alla sua età aveva tutto il diritto di morire.
 
Insomma, vediamo la Terra Promessa sempre “davanti” a noi…non c’è posto per la speranza quando c’è sicurezza; abbiamo  speranza solo se non c’è certezza.
 
Pensiamo a una cosa molto bella che dice Gesù: “quando sentirete parlare del Regno dei Cieli e di dove si trova,  non preoccupatevi, perché il Regno dei Cieli è già in mezzo a voi”. Ecco, noi potremmo dire che la speranza é già in corso, perché Colui che è la nostra speranza, l’ha già iniziata, riscattandoci con la Sua croce. E dunque noi siamo partecipi di una provvidenza, di un movimento di cui non siamo nemmeno consapevoli, ma che ci accompagna;  è il disegno misterioso di una storia che non viene meno. Abbiamo il timore che venga meno, ma in realtà fa i suoi passi; noi siamo chiamati a crederci, anche se non vediamo; quindi partecipi della grazia, andiamo avanti, ogni sera e ogni mattina, soprattutto coltivando la convinzione che siamo nel presente della salvezza; cioè la salvezza è già qui.
 
Concludiamo con le preghiere finali fatte di tre momenti, il Magnificat per dire “grazie”, il Padre nostro per dire “fraternità” e le preghiere che vogliamo dire  insieme in questo momento, per le guerre, le malattie e tutto quello che desideriamo.
 
Continueremo i nostri incontri  trattando  Decalogo e Beatitudini; la scelta è dovuta a questo ragionamento: la speranza nasce da una compagnia, dal fatto che c’è un’alleanza (il Decalogo) e la speranza nasce da una Promessa, appunto le Beatitudini.

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Lectio Divina

Prologo ed Epilogo delle Dieci Parole:
ragione e finalità di una Regola

27 ott 2024

Iniziamo la lectio con la lettura di Deuteronomio 32, versetti 1-12
1"Udite, o cieli: io voglio parlare. Ascolti la terra le parole della mia bocca! 2Scorra come pioggia la mia dottrina, stilli come rugiada il mio dire; come pioggia leggera sul verde, come scroscio sull'erba. 3Voglio proclamare il nome del Signore: magnificate il nostro Dio! 4Egli è la Roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto. 5Prevaricano contro di lui: non sono suoi figli, per le loro macchie, generazione tortuosa e perversa. 6Così tu ripaghi il Signore, popolo stolto e privo di saggezza? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? 7Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo racconterà, i tuoi vecchi e te lo diranno. 8Quando l'Altissimo divideva le nazioni, quando separava i figli dell'uomo, egli stabilì i confini dei popoli secondo il numero dei figli d'Israele. 9Perché porzione del Signore è il suo popolo, Giacobbe sua parte di eredità. 10Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. 11Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. 12Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c'era con lui alcun dio straniero.
Ci interessano in modo particolare, e ci ispirano per la nostra meditazione i versetti 10-12.
Iniziamo oggi  la nostra riflessione sul Decalogo, nel giorno in cui la Chiesa sta finendo il suo decalogo di questo tempo, il documento del Sinodo sulla sinodalità. Cominciamo mettendoci davanti alla Parola che ci si rivolge, con l’atteggiamento di chi riconosce la propria povertà e la potenza di Gesù; è l’atteggiamento migliore perché la Parola possa dirci e perché interroghi la nostra vita.
Quindi non ci sarà l’esegesi sul passo, ma ci sarà l’introduzione al Decalogo, fondamentale nella fede dei credenti. Tutta la fede d’Israele (e anche la nostra fede dovrebbe esserlo), è incentrata su “Shemà Israel”- Ascolta Israele” - Deuteronomio 6 Versetti 4-9, (4Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”) oppure Deuteronomio 11 Versetti 13-21, ( “13Ora, se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do, amando il Signore, vostro Dio, e servendolo con tutto il cuore e con tutta l'anima, 14io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d'autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio. 15Darò anche erba al tuo campo per il tuo bestiame. Tu mangerai e ti sazierai. 16State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre e voi vi allontaniate, servendo dèi stranieri e prostrandovi davanti a loro. 17Allora si accenderebbe contro di voi l'ira del Signore ed egli chiuderebbe il cielo, non vi sarebbe più pioggia, il suolo non darebbe più i suoi prodotti e voi perireste ben presto, scomparendo dalla buona terra che il Signore sta per darvi. 18Porrete dunque nel cuore e nell'anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; 19le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai; 20le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, 21perché siano numerosi i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, come i giorni del cielo sopra la terra, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro.”) Ascolta Israele, il Signore è uno solo, amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutto te stesso, amerai il prossimo come ami te”. Questa fede nell’Unico ci interessa, noi siamo quelli che sono stati raggiunti da questa novità. Nella riflessione degli umani sul Mistero e sul Sacro la novità è che esiste un solo Dio e che non ci sono più molti dei. Storicamente Israele ci introduce nella fede monoteista; gli idoli, dunque, sono scaduti. Ci ritroviamo con la prima Parola, rivelativa di Jahvé, “Io sono”. La prima è “Io”, seguita dal tetragramma YHWH – “Io sono Colui che ci sono” – “Io sono Colui che sono con”.
Si tratta dunque di un Dio non riconducibile ad un evento; non è il Dio del tuono, della montagna, ma è Qualcuno che, potremmo scoprire poi,  ha a che fare con una Storia, è il Dio di ciò che accade. Un’immagine molto bella che la teologia ci rimanda è quella di un Dio “da  tenda”, che cammina con, ed in questo si definisce; nel fatto, cioè, che c’è un camminare insieme, che c’è una sinodalità, che Dio non si ferma, non è riconducibile a un luogo, che affronta l’imprevedibile, viaggia con Israele, non chiede edifici che lo riducano all’interno di uno spazio, è pellegrino come il Suo popolo, zingaro nella vita. La libertà è il centro del Decalogo, è uno spazio pericoloso perché noi sappiamo che essere liberi ci introduce in un territorio nel quale ci troviamo allo sbaraglio. Dunque il Decalogo è proprio una sorta di disciplina che l’uomo si dà: in questo spazio minaccioso Dio é con l’uomo, l’uomo può contare su. Si riduce a un’immagine, ad una rappresentazione, non si faranno  idoli perché si mostra in una compagnia – “Sarò con te”; si mostra in una Voce, e la Voce, come suggerisce il Vangelo di oggi, apre una visione sul mistero che è Dio, non avremo altro che un Libro per dire di Colui che è il Tutto.
Esprime bene l’atteggiamento di Israele quello che è la diversità di Colui che è totalmente altro quando ci rimanda che davanti alla teofania  - Cap. 19 di Esodo – Israele non vuole avere a che a fare con tuoni, luci, fulmini e altro, e manda Mosè a parlare con questo Dio di cui ha timore. Rinvia ad una distanza che esprime la necessità, quindi, nella storia della salvezza, che si inseriscano dei mediatori che dicono del Mistero di un Altro.
Nel Decalogo ci sono scritte tante cose e ne diciamo solo alcune; la prima è che la sequenza è relazione-regole; non c’è ragione di una disciplina se non perché prima non c’è una storia tra due, un camminare insieme;…Nel senso: chi me lo fa fare? Soltanto la decisione di essere in alleanza con te, di non fare da me. Questa cosa è essenziale e si traduce, come ci dirà anche Gesù nel citare i Comandamenti (per esempio nell’incontro con il giovane ricco) con il fatto che prima c’è una teologia e poi c’è un’etica.
Noi invece, in una data stagione storica e pedagogica, prima abbiamo  messo l’etica, cioè “bisogna fare così” e poi abbiamo capito anche  che c’é un anticipo, che abbiamo a che fare con Qualcuno.
E’ essenziale questo, altrimenti non si comprende perché si deve rispondere a una coscienza.
Un’altra considerazione: ci sono diversi codici comportamentali nella cultura religiosa antica, anche non ebraica: es. il codice di Hammurabi, il codice dei Sumeri, che hanno contenuto simile al Decalogo di Israele. C’è una fondamentale concentrazione su una postura che è quella del rispetto in relazione a Dio e in relazione al prossimo.
Ma il codice di Israele è introdotto e accompagnato come abbiamo scritto nel programma: abbiamo un Prologo e un Epilogo: prima il fatto che Dio giustifica il Suo proporre le dieci Parole in ragione del fatto che Lui è Colui che ha liberato Israele, l’ha sciolto dalla condizione di schiavitù. E’ un Dio medico che guarisce il male di dentro e per questa ragione, come fa  il bravo medico,  dice al paziente: “se vuoi essere sano fai così”.
Dopodiché l’epilogo di questa indicazione di atteggiamenti, di comportamenti, è la considerazione che così l’uomo vivrà: “perché tu viva e tu sia felice”. L’uomo vivrà, ossia avrà un futuro, e anche, non vivrà da triste, raggiungerà la pienezza di sé nella misura in cui farà così. Molto bello che, paradossalmente, ciò che ha a che fare con le regole, sia ciò che ha a che fare con la libertà, ossia il fatto che noi diventiamo liberi da noi stessi, nella misura in cui c’è una disciplina. Molto bello che all’uomo sia dato di poter essere libero, anche di sbagliare, cioè di  essere portatore di lacune, di povertà, ma lo stesso amato.
Di seguito alcune considerazioni sul rapporto tra promessa e speranza; abbiamo scelto il Decalogo proprio perché apre un futuro, è tutto al tempo futuro: non ucciderai, non ruberai, come a dire: forse non sei capace di farlo adesso; il linguaggio biblico è scarno, ma attento; non dice: non rubare, oggi. E’ al futuro perché io diventerò capace. I Comandamenti sono la vetta della montagna sulla quale sto salendo come Gesù verso Gerusalemme; non si tratta, per forza di qualcosa che ho già raggiunto; sono l’obiettivo a cui tendere anche se oggi sono assolutamente precario su questo.
Chi è Dio? Dio è uno che si dice “nell’oggi”, non in un luogo, non in una cosa, ma in un tempo di un eterno presente; Dio è Colui che parla attraverso una Storia, la Storia che fa con l’Uomo; per questo la chiamiamo Storia della Salvezza. La Bibbia è tutta una storia di alleanze, da quella che Jahvé fa con Adamo, a quella  con Noè e poi con Abramo; sono le vie attraverso le quali si esprime il desiderio di Dio, che è il desiderio che ci sia un accordo, ossia che ci siano due che camminano insieme e che confidano l’uno nell’altro. Un accordo definito cosi: dal  non vagare per i fatti propri, fino ad  una trasparenza che è essenziale nelle relazioni. Il nesso che c’è tra l’alleanza e la vita, e che si traduce nella concretezza del vivere, è quello che fa sì che l’uomo vivendo una compagnia diventi capace di una continuità, ossia l’orizzonte si apre dinanzi a noi nella misura in cui c’è un Noi, non nella misura in cui c’è soltanto un Io.
Pensiamo all’impatto che ha questo con la stagione culturale nella quale viviamo; oggi non c’è la consapevolezza di un destino comune, siamo nel pieno della crisi della  partecipazione. Il Sinodo è stato fatto proprio su questo: “comunione, partecipazione e missione”; per dire che in realtà pochi si sentono parte e invece i Dieci Comandamenti, tutta la seconda sezione che Gesù cita in riferimento al giovane ricco, sono tutti per dire “dell’altro”, di avere un atteggiamento di giustizia nei suoi confronti.
Come sappiamo, i Dieci Comandamenti, che in realtà sono undici o dodici, gli ultimi due, i primi due, sono stati accorpati, si riducono ai due Comandamenti dell’Amore: “amerai il Signore Dio tuo; amerai il prossimo tuo”; ma a loro volta questi sono trasformati nell’unico comandamento di cui ci dice Gesù che è quello del “come”: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”, che si traduce ancora in quella legge dell’amore che esprime la Prima lettera ai Corinzi cap. 13, quando dice che alla fine rimangono solo tre cose, la fede, la speranza la carità, ma di tutte la più grande è la carità. Al versetto 7 del cap. 13 di Corinzi 1 c’è la motivazione di quella sorta di decalogo, ulteriore sulla carità, che dice che nessuno deve fare l’interesse proprio, ma quello di Cristo e quello degli altri. Oggi siamo nel pieno della contraddizione rispetto a quel Comandamento: facciamo l’interesse proprio e basta.
Ancora alcune riflessioni sul rapporto tra alleanza e speranza, perché abbiamo scelto il Decalogo dicendo che la speranza, il futuro, viene a noi nella misura in cui c’è una promessa. Il IV comandamento  dice “Onora tuo Padre e tua Madre perché tu sia felice”; è l’unico comandamento che porta una conseguenza e quello che ci dice è che non vivremo da tristi se saremo capaci di riconoscere il mistero di coloro dai quali abbiamo ricevuto la vita; perché come il fiume, il nostro futuro non sta alla foce, dove l’acqua si getta, ma sta alla sorgente da dove l’acqua viene.
Nel foglio (allegato) ci sono tre sezioni del decalogo: la prima, giustificativa, la seconda, relativa agli atteggiamenti verso Dio e la terza agli atteggiamenti verso il prossimo; sono soltanto due i comandamenti al positivo e gli altri sono al negativo. Ma noi sappiamo, come ripetuto più volte che il “no” è affermativo, non è come il nostro negare, non è misconoscitivo della persona, del suo diritto di esistere, il no è prudenziale, cautelativo; i dieci comandamenti sono un’elencazione di tutela: quando dicono “non dire falsa testimonianza” é perché noi viviamo in un sistema di fiducia, nel quale, se non sei verace, se non è preservata la trasparenza, se dici e non dici, non è possibile confidare nell’altro.
E’ molto bello che i comandamenti non siano un’indicazione della salvezza di “gregge”, come si dice in pandemia, ma siano l’espressione creativa di una fedeltà, che è cosa diversa dall’essere passivi, e che ci impegna ad una corresponsabilità, ad una corresponsione in cui siamo partner in causa, dentro un dialogo e un’alleanza, in cui non siamo semplicemente coloro che ricevono. “Noi lo faremo e lo ascolteremo” dice Israele, alla fine di quello che Mosè è chiamato a suggerire; e sottolineiamo la sequenza: prima “faremo” e poi “ascolteremo” e ciò per non rischiare di dire sì e poi continuare tranquillamente come prima.
Ancora qualche riflessione sulla prima Parola: “Io sono”. Esprime molto bene la unicità di Jahvè; è uno che dice il proprio mistero; “Io sono” è l’affermazione di un’identità, la rivelazione di quello che uno è, di come si definisce. E non è l’esaltazione di sé, il mettersi davanti agli altri, è il fatto che non c’è altra ragione per un rispetto che la considerazione dell’altro; e il rispetto non é un atteggiamento deferente, è la valorizzazione del Suo Mistero, è assumere una postura di giustizia nei confronti dell’uomo, non pregandolo. Questa cosa che qualcuno ha chiamato una “nuova genesi” – ricordiamo che Genesi racconta delle nostre origini mentre  Esodo di un rinnovato atto creativo -  ci dice come la vita può  scorrere tra le persone, non dunque la parola della legge, ma la legge della parola, dove c‘è un Dio geloso, che conserva la memoria ma è capace anche di perdono fino alla data generazione; un Dio che non va pronunciato nel Suo nome invano, cioè non va messo in gioco a vuoto, senza una ragione, riempiendosi la bocca di Qualcuno che è assolutamente diverso da come noi ci giustifichiamo sulla base di Lui.
Nella sequenza dei comandamenti sottolineiamo alcuni valori essenziali, positivi che sono richiamati: il valore dell’Unicità di  Dio; il non farsi immagini contraddice al delirio di potenza che c’è oggi nelle relazioni tra le persone, dove c’è un uso strumentale, magico e mercantile dell’altro.
Richiamiamo il valore di Shabbàt, il giorno diverso, quello della libertà dell’uomo ed il valore di quel comandamento che onora anche la Madre, non solo il Padre, come era nella cultura maschilista dell’epoca; e da questo fa dipendere l’esito di una storia, perché non c’è futuro se non c’è questo richiamo delle origini, del fatto che la vita noi la riceviamo. Richiamiamo il valore del “Non uccidere”; pensiamo a come oggi si è perso il senso del sacro, legato alla dignità della vita umana, nelle guerre, e non solo, nei maltrattamenti che si fanno alle persone anziane e così via.
Richiamiamo il valore del desiderio (gli ultimi due comandamenti), perché Jahvé molto profondamente fa comprendere che non è solo questione di possesso della casa o della donna; è questione “nativa”, che ha a che fare con l’energia pulsionale che ci muove, è il desiderio che va disciplinato, che non significa non provare attrazione, vuol dire che non bisogna indulgere a.., che il desiderio non può essere la sola motivazione che ci spinge a….
Come contraddice il Decalogo a questo universo di idoli, di timori, di sudditanze, dove afferriamo soltanto noi stessi, nel quale siamo immersi oggi, un mondo di possessioni, di falsificazioni?
Allora due domande: quali sono i miei comandamenti? E come domanda il giovane ricco a Gesù: “qual è il più grande dei comandamenti?”
Cosa significa stare accanto a qualcuno? Essere presenza? Quale offerta di relazione facciamo a coloro con i quali camminiamo, se camminiamo? E se non c’è ragione perché ci sia cammino che cosa ci stiamo a fare nella fede?
Si riflette anche sul VI comandamento,  sul fatto che la nostra educazione è stata centrata su questo mentre oggi nessuno ne parla.
Un’altra riflessione è sulla dinamica indicativa-imperativa dei comandamenti e cioè sul fatto che Dio suggerisce ciò che è bene e poi lo richiede; ovvero, non c’è prima una pretesa; c’è un’elezione, un discernimento che poi conduce a una proposta che è impegnativa. Questa cosa  appartiene alla pedagogia morale, quella cosa per la quale se vuoi che qualcuno si convinca a fare qualcosa, chiede di rendere ragione, poi è necessario attendere che i ritmi dell’altro lo  conducano a essere capace di questo. Non sempre le due cose sono così scontate, che ci sia una comprensione e che ci sia un mettere in gioco la volontà.
Ancora una riflessione sul fatto che nei comandamenti c’è un esercizio della volontà di cui oggi non siamo capaci: è difficile dare contezza delle necessità di un comportamento e orientare le pulsioni, le dinamiche,  però è sicuro che c’è, nella pedagogia di oggi, la necessità forte di recuperare una dimensione impegnativa della relazione; a significare che, se essere in relazione è fondativo, questo non basta, ma è relazione nella  misura in cui è impegnativa, in cui c’è un coinvolgimento della vita. In caso contrario non c’é relazione; viceversa oggi, per fare sorrisi a tutti, vivere di consenso sociale e non ferire, abbiamo la Chiesa fuori. Purtroppo invece, dobbiamo essere costrittivi, ma è importante come esserlo: lo siamo secondo una logica di dominio o di dinamica indicativa-imperativa? Ma, in ogni caso, non si può fare a meno di dire se una cosa è giusta o sbagliata.
L’ultimo pensiero è il fatto che il Decalogo, oggi, in questo oggi, che è il Nuovo Testamento, per Gesù sono  le Beatitudini, il discorso sul Monte, come il Decalogo al Sinai; é questa arditezza nel gridare “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno”.

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Lectio Divina

“Non avrai altri dei. Non ti farai idolo”.
L’affermazione dell’Unicità di Jhwh

10 nov 2024

Iniziamo il nostro percorso con il primo comandamento;  non si tratta della conoscenza di aride leggi, ma piuttosto di un percorso di libertà; l’amore infinito di Dio ci porta verso quella parola che rappresenta il trait d’union delle nostre lectio: “ speranza”.
Ricordiamo, come  già detto,  che prima viene la teologia e poi l’etica; prima la libertà e la guarigione, e soltanto dopo  le regole; prima c’è una promessa di futuro e di felicità e poi seguono le indicazioni per raggiungere la meta; ma su ogni cosa vive l’amore incondizionato di Dio.
Il primo comandamento ci dice due cose: Dio ci ama, ma soprattutto noi dobbiamo amarlo. E questa è una nuova genesi, una nuova vita deve scorrere dentro di noi attraverso l’amore che impariamo a conoscere da Dio.
Molti sono i riferimenti biblici: (vedi documento allegato)
Es. 20, 1-6 - Dt. 5, 1-10

Mt. 19, 16-22
Immaginiamo che stiamo uscendo dal nostro Egitto, siamo stati umiliati e resi schiavi; davanti a noi c’è solo un deserto e un alto monte. Non siamo ancora nella terra in cui scorre latte e miele, ma abbiamo la sconfitta alle nostre spalle e la solitudine di un deserto davanti a noi. In alternativa al deserto c’è solo la fatica di salire un alto monte. Questa è la cornice che Dio sceglie, per ognuno di noi, per fare un incontro personale, inatteso e che apre alla speranza. Dato che non riusciremo a vagare all’infinito nel deserto, prima o poi dovremo salire sul monte. Sceglieremo  la fatica di salire perché le scelte non sono mai facili, ma proprio lì, quando le scelte sono molto difficili e faticose, avviene l’incontro, l’alleanza, il dono di libertà che il Signore ci vuole dare, e ascoltiamo una Voce che si mette a camminare con noi. Questa la disposizione d’animo in cui dobbiamo metterci.
Prima domanda/spunto di riflessione: dove ci troviamo noi?
Stiamo vagando nel deserto o siamo già arrivati in cima al monte?
Sul monte avviene l’incontro; l’inizio è “Ascolta, Io Sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù.” (Esodo 20, 1-6 e anche Marco 12, 28-30).
Dio ci ha fatto uscire dalla condizione di schiavitù, quindi siamo liberi, ma ci troviamo nel deserto. Dio è accanto a noi, non c’é più un tempo e uno spazio che Lo staccano da noi e sta parlando. Ma di cosa parla Dio? Nel nostro brano fa un elenco di comandamenti, ma non si tratta di leggi e di punizioni.
Osserviamo i verbi utilizzati: “temere” Deuteronomio 6, 2-13;  “ascoltare” Deuteronomio 6, 3-4; “amare” Deuteronomio 6, 5;  “servire” Deuteronomio 6, 13;  “seguire” Deuteronomio 6, 14;  “ricordare” Deuteronomio 8, 8-9;  “aderire”

Deuteronomio 10, 22.

Leggiamo Deuteronomio 10, 12: “Ascolta, che cosa ti chiede il Signore Dio tuo se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per le sue vie, che tu l’ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima”. Non sono certo verbi che ci danno dei comandi, ci danno semplicemente un sentiero da seguire; ma c’è una cosa bellissima, due parole: tu e tuo. “Tu” indica ciascuno di noi e “tuo” è riferito a Dio, non come il padrone, Colui che ha creato il cielo e la terra, si tratta del   “mio “ Dio per ognuno di noi, personale, a dire che ciascuno di noi, ai Suoi occhi,  è unico e irripetibile. Ed è a “me” che si rivolge, a “me” vuole parlare, non guarda Mosè, guarda ognuno di noi faccia a faccia e ama proprio “me”. Non è forse questa la via della speranza? La roccia a cui posso aggrapparmi? Il grembo su cui posso chinare il capo? La spalla su cui posso piangere? E’ proprio il mio Dio.
La nostra libertà ci consente di fare una serie di scelte per ogni cosa, ma abbiamo anche una serie di sogni che vogliamo realizzare con tutti i mezzi, mete che cerchiamo di raggiungere solo con le nostre forze. Dio ci dice invece: “Vi do un solo sogno, è l’amore, dovete raggiungere soltanto questo, tutto il resto non conta.” L’unico scopo che può dare un senso alla nostra vita è l’amore ed esso dà anche un ordine alla nostra vita e la mette a posto.
Quindi, il primo comandamento, che stiamo trattando oggi, vuole farci aprire gli occhi su tutto ciò a cui noi diamo troppo valore; e dare troppo valore a cose e persone significa farci schiavi di quelle cose e quelle persone e tornare polvere.
Pensiamo semplicemente a tutto il tempo che perdiamo andando dietro a questa e a quell’altra cosa…Dio ci dice che ci sono valori più importanti; a volte dovremmo essere capaci di dire un piccolo no per fermarci un attimo e dare a Dio il vero valore.
Seconda domanda/spunto di riflessione: quali sono le nostre vere mete nella quotidianità? Quali le priorità che abbiamo nella nostra mente? Interroghiamoci con sincerità, senza nascondere la verità a noi stessi, anche se risulta scomodo. A parte le grandi parole…la fama, la ricchezza, il potere, il riconoscimento, la propria realizzazione, ci possono essere anche piccole cose che però noi mettiamo davanti a Dio e davanti a tutto il resto.
La Parola di Esodo 20, 4 ci dice “non ti farai idoli”: in ognuno di noi c’è questo amore disordinato, fatto di una libertà condizionata da tante false mete e che finisce per danneggiarci.
(Matteo 6, 24) “Nessuno può servire due padroni, non potete servire Dio e mammona”. Quindi dare troppo valore ad altro o ad altri ci fa ignorare Dio. Ma cosa produce in noi questo? Il fatto di avere tanti idoli, tante cose cui correr dietro produce in noi ansia, ci toglie tempo e cancella l’entusiasmo della ricerca di Dio, fa tacere la nostra coscienza.
Bonhoeffer ci dice: “cancella l’alterità di Cristo comparandolo ad un martire nei campi di concentramento”; può anche accadere che noi, inseguendo tanti dei, trasformiamo Dio in ciò che vogliamo noi, Lo usiamo a nostro piacimento e questa è forse la cosa più pericolosa.
Matteo 22, 32 , con riferimento  al primo comandamento, ci dice: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”; è quindi il Dio di ognuno di noi, ciascuno può mettere il suo nome,  perché noi siamo fatti a immagine di Dio; Dio non smette mai di chiamarci. Ricordiamo Genesi 3, 9: “Adamo dove sei?” Questa frase è rivolta ad ognuno di noi.
E tornando al canto iniziale (allegato),  noi dobbiamo saper rispondere: “solo in Dio riposa l’anima mia”; è questo ciò che Dio si aspetta da noi, che ci affidiamo e riposiamo in  Lui; non c’è meta più elevata che questa comunione con Dio; dobbiamo lasciarci guidare per la strada che Dio vuole, altrimenti perdiamo noi stessi.
Ancora una Parola: “Amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto se stesso”.  Padre Arturo diceva: “chi non ha dato tutto, non ha dato nulla”. E’ un grande insegnamento, molto difficile da mettere in pratica e vuole dire che bisogna mettere Dio al primo posto.
Prima Corinzi 10, 31: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto per la gloria di Dio”; e ancora, Matteo 10, 37: “Chia ama il padre o la madre,  il figlio o la figlia più di me non é degno di me” .
Quando il Signore dice :”Io sono il Signore Dio tuo”, vuole chiederci di seguirlo; quindi come dice il Vangelo: “Vuoi essere perfetto? Vendi tutto e seguimi”. “Lascia dunque le scelte che hai fatto, le mete che hai raggiunto da solo e segui ciò che Io ti dico, segui Me, lascia tutto il resto perché non ti fa bene”. Dio è amore, quindi dobbiamo seguire l’Amore. “In questo è l’amore: non siamo noi ad amare Dio ma è Lui che ha amato noi e ha mandato Suo Figlio come vittima di espiazione dei nostri peccati”. (Prima Giovanni, 4, 10).
Ma il comandamento non finisce qui perché Gesù ha aggiunto due cose. Luca 10, 25-28: “Amerai Dio e amerai il prossimo come te stesso”. Giovanni 13, 34-35: “Amatevi gli uni gli altri come Io vi ho amato”.
E’ più facile illudersi di amare un Dio che non si vede, che amare il fratello che si vede: fratello, amico, collega di lavoro, compagno di scuola. Gesù  ci ricorda: “ ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli…, le avete fatte a me”.
Ricordiamo anche, Prima Corinzi, 4, lo splendido inno alla carità di Paolo: “L’amore é.. tutta quella cosa che è l’amore”, una cosa molto difficile da mettere in pratica.  
Nuovo interrogativo/spunto di riflessione: “amate l’altro come voi stessi”;  ma siamo sicuri di amare noi stessi? Non è così scontato…l’insoddisfazione, la tristezza, la mestizia, il non sentirsi all’altezza, la disperazione, ma anche il contrario, la presunzione, l’egoismo, il voler piegare gli altri alle nostre idee a tutti i costi, sono tutte ingiustizie che facciamo prima di tutto, a noi stessi e che ci immergono in  quell’amore disordinato che ci consuma e che ci fa perdere felicità e speranza.
Non possiamo dire di mettere Dio al posto giusto se non ci disponiamo a farlo; il primo comandamento continua: “il Signore Dio tuo adorerai”. A lui solo renderai culto.” L’adorazione fa parte del primo comandamento (Mt. 4, 10). Vediamone le fasi:
• ringraziare per ogni cosa, il respiro quotidiano. Ce lo dice Paolo in Prima Corinzi 4, 7:”Cosa possiedi che tu non abbia già ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se non l’avessi ricevuto?
• supplicare; “qualsiasi cosa comandate al Padre nel mio nome Egli ve la darà” (Gv 16, 23).       “Sia fatta la Tua volontà, e non la mia”,  il Padre nostro di Gesù nell’orto dei Getsemani.
• obbedire; questo è un sacrificio gradito a Lui: “per te ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra” Filippesi 2, 10. Questa è la via per la felicità.
Fermiamoci su altre  parole: un Dio geloso; troviamo questo termine anche nei Salmi, da intendersi non come intendiamo noi, ma nel senso di gelosia di una mamma, che darebbe la vita per i propri figli, così come ha fatto Gesù, che ha dato la vita per tutti noi. E solo quella mamma, che sa amare così, sa anche perdonare infinite volte; cerca, con tutti i mezzi, di salvare il figlio, anche se è un drogato; il suo desiderio, in ogni caso, è di salvare il figlio e di perdonarlo; così dobbiamo intendere la gelosia di Dio. E poi punire e perdonare. Ma cos’è la punizione di Dio? Non è nient’altro che il nostro esserci allontanati, come Adamo che viene cacciato dal Paradiso terrestre:  in realtà  è lui che si è allontanato. E anche per noi, la punizione peggiore è di non avere Dio vicino. Quindi tutte le nostre  scelte sbagliate ci fanno allontanare da Lui ma anche dalla famiglia, dal mondo, perché il male non si limita ad un pezzettino ma è sempre molto distruttivo e arriva dappertutto. Pensiamo al male come ad un sasso che viene gettato in uno stagno: le onde si allargano sempre più e si fermano soltanto quando arrivano sulla riva,  hanno un moto continuo; ebbene il male è così, le sue conseguenze si diffondono  su tantissime persone nel mondo.
La misericordia e l’amore invece, coprono ogni peccato. Dio è pronto a rimediare i mali del mondo, anche quelli peggiori, pensiamo alle guerre  o ai problemi climatici del nostro tempo, ma ognuno di noi deve avere amore e misericordia, non fare il male. Allora, Dio può mandare le sue ondate d’amore, che vanno oltre le rive e si diffondono in tutto il mondo; il male viene trasmesso per tre o quattro  generazioni, cioè si sposta ma c’è un limite, il bene invece dura mille generazioni, a significare che non ha limiti.
Evidenziamo due elementi riguardo al giovane ricco. Il primo è che la Bibbia ci parla di “un tale” e questa espressione viene utilizzata quando si vuole indicare una persona che non va; questa persona che appunto, è un senza-nome,  incontra Dio faccia a faccia. Noi che siamo qui, che leggiamo la Parola di Dio, e siamo dei teofili, come dice San Luca nell’introduzione al suo Vangelo, noi che siamo alla ricerca di Dio, facciamo attenzione a non essere un tale qualsiasi.
Vediamo la seconda domanda che fa questo ricco: quali comandamenti…? Nel dialogo tra lui e Gesù viene fatta la lista dei comandamenti rivolti verso gli altri, e non vengono indicati i primi due perché il ricco in realtà è un ateo, pensa di credere ma non è così; incontra Gesù faccia a faccia e Gli chiede quali sono i comandamenti, fa tutte le cose che essi prevedono eppure Gesù non lo conosce perché prima di tutto c’è sempre Dio, bisogna amare e rispettare Dio.
Ultimo accenno sulla speranza: si tratta di un dono  molto facile da perdere. Dalla fede deriva la carità, dalla carità la verità, dalla verità amare Dio nella libertà, ma cos’è tutto questo? E’ speranza, è un desiderio di felicità dell’uomo. Con la speranza arriva la forza, sempre, che ci aiuta davvero nella vita, e con la forza arriva il coraggio di proseguire il cammino, perché finalmente siamo nell’intimità di Dio. Romani 12, 12 dice “allegri nella speranza”; non si può essere tristi nella speranza perché come dice Romani 8, 17 “se siamo figli siamo anche eredi, se siamo eredi siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo”. La speranza è quel dono che ci consente di vivere e non di vivacchiare, è questa forza che ci permette di lavorare soffrendo per amore; l’amore non è senza sofferenza, soffrire con amore, per amore, realizza i piani di Dio, ecco la speranza. Papa Francesco nel 2017 ha detto “la speranza non delude; essa non è fondata su ciò che noi possiamo fare o essere o ottenere e nemmeno in ciò che crediamo, essa è fondata sull’amore di Dio per ogni uomo ed è ciò che di più fedele e sicuro possa esserci”. Quindi non è qualcosa di aleatorio, è una cosa sicura. Quando diciamo “Speriamo!” la nostra è un’affermazione.
In sintesi il primo comandamento è amore, per se stessi, per gli altri, per amare Dio e, finalmente, anche per sentire l’amore di Dio, perché Lui è la “stella del mattino” (Ap. 2, 28). Torniamo dunque al nostro deserto: se siamo nel deserto e andiamo verso quel monte potremo vedere bene le stelle e soprattutto la stella del mattino, non saremo offuscati dalle tante luci della città, siamo dunque degli osservatori in ricerca e saremo riempiti della gioia di Dio: “Sarete felici”  conclude il decalogo.


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Lectio Divina

“Non pronuncerai il nome invano”
Il rispetto del Reale dell’A-altro da me

24 nov 2024

Esodo 20.7 “7Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano”.
Deuteronomio 5.11 “11Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano”.
Matteo 7, 21-27 “21Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22In quel giorno molti mi diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?". 23Ma allora io dichiarerò loro: "Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l'iniquità!". 24Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande".
Luca 6, 46-49 “46Perché mi invocate: "Signore, Signore!" e non fate quello che dico? 47Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: 48è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene. 49Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande".

Da questo momento i  comandamenti sono scritti in modo molto lapidario, con un semplice versetto. Nella lectio precedente abbiamo parlato di idolatria, che molti associano a questo comandamento. In realtà l’idolatria sta tra il primo e il secondo comandamento. Nel mondo religioso che circondava Israele si costruivano statue che venivano portate in processione e davanti alle quali ci si prostrava per chiedere favori. Dio proibisce questo ad Israele perché Lui è Altro rispetto a questi idoli, è qualcosa di diverso: un uomo non può costruirsi un Dio per i suoi bisogni, Dio non vuole questa cosa e dice di non poter essere rappresentato. E ciò vuol dire che Dio non può essere “conosciuto dagli uomini”. Quindi, per il popolo ebraico, Dio è l’inafferrabile, Colui che non si può catturare, né piegare al proprio volere, è un Mistero di cui si può solo intuire qualcosa, ognuno di noi magari intuisce anche cose diverse, perché, appunto Lui è Altro e non possiamo farci neanche un’immagine mentale di Dio.
Per noi Cristiani solo Gesù può dipingere Dio e lo fa attraverso le Parabole; mediante  le parole di Gesù si può scoprire un po’ questo volto di Dio.
Non pronunciare il nome di Dio, dunque, vuol dire che dobbiamo stare attenti a come parliamo di Dio, e non solo…
C’è il libro di un predicatore americano, di quelli che vanno in TV, che si intitola “Prega e diventi ricco” e si intende “ricco” non di cose spirituali, ma proprio di soldi; è un po’ come se avessimo scambiato Dio per un influencer, un banchiere, uno che gioca in borsa… proprio ciò che Dio non vuole assolutamente.
Gesù  ci riporta con  i piedi per terra e infatti ci dice: Gv. 14.9 “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto? Chi ha visto me ha visto il Padre”. Ecco un’immagine di Dio. E poi, ancora Giovanni, 14.11 “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse”.
Attraverso questi versetti abbiamo due grandi indicazioni su Dio: prima di tutto che è Padre e quindi il nome è Padre e poi che va in “relazione”: io sono con te, Lui è con me, io sono con Lui…Quindi è Padre e relazione. Possiamo dire che ascoltando Gesù abbiamo un’immagine di Dio senza immagine.
Torniamo ai versetti di Esodo (20.7-9 e Deuteronomio (5.11),  con particolare riguardo all’avverbio “invano”. Per la Bibbia ha il significato di schawe e vuol dire vano, vuoto, e come abbiamo visto precedentemente, questo aggettivo si attribuisce agli idoli. Quindi, in sostanza il Comandamento ci dice di non nominare il nome di Dio come quello di un  idolo. Ma “vano” vuol dire anche, che non si può conoscere, quindi si traduce in “Non nominare ciò che non conosci”
Passiamo ora alla parola “nome” nella Bibbia. In Oriente conoscere il nome di una persona significava avere possesso su quella persona; conoscere il nome di una divinità significava poterla usare per scopi magici, superstiziosi, esoterici, manipolatori, ecc. quindi il nome ha un significato convenzionale, designa l’essenza di chi lo porta, ne è parte integrante, dà un ruolo all’interno dell’universo, un senso alla vita di chi lo porta, una identità che caratterizza.
Era così anche per i Romani; essi dicevano: Nomen omen, il nome è un augurio, un indizio sul destino.
Sappiamo che spesso Dio cambia il nome ai suoi consacrati: Abramo padre di molti diventa Abraham padre di una moltitudine;  Giacobbe, soppiantatore, diventa Israele, uno che lotta con Dio.
Ecclesiaste 6.10 ci dice: “chi non ha nome, non esiste”; se pensiamo a tutte le persone, che per qualche ragione, perdono la memoria, in realtà si trovano proprio in questa situazione, non esistono, non sanno chi sono, cosa hanno fatto nella vita, perdono tutto.
Nel Vangelo, di Luca ma anche degli altri evangelisti, Dio è un Padre misericordioso, è un seminatore, è una preziosa perla, è la dracma perduta che bisogna cercare, è l’amico che apre la porta in piena notte, è il Buon Pastore che cerca la pecora smarrita; vediamo insomma  l’essenza di Dio, il ruolo di Dio in tutte queste  parabole che, con varie immagini,  ci danno il nome di Dio.
Ma dobbiamo dire che Dio ha un nome; siamo sul solito monte aspro e brullo, c’è un roveto che sta bruciando e c’è una teofania: Dio pronuncia liberamente, Dona il suo nome al suo popolo, un nome che dice e nega, un nome che svela e cela, un nome nascosto e un nome esplicito. Ha un nome che ci dice che Lui ha una presenza efficace nel mondo, l’uomo non può racchiuderLo in concetti terreni, non può manipolarLo, non può asservirLo, Lui dice: “Io sono Colui che è”, sono Santo, esisto, sono  vita, sono il Dio che è con voi, ed è il tetragramma impronunciabile, JHWH. Gli Ebrei quindi, lo chiamano Adonai, Signore, in greco Kyrios, poi lo chiamano Elohim, pienezza, oppure El Shaddai, l’Onnipotente.
In ogni caso, in Deuteronomio, nei capitoli 12 13 e 14 troviamo la teologia del nome di Jahvè.
Geremia 14. 9 dice: “tu abiti in mezzo  a noi e il tuo nome viene invocato su di noi”. Nei Salmi si dà sempre un valore salvifico al nome di Dio: “O Dio, salvami per il Tuo Nome” (Salmo 54). “Egli mi guida per il giusto cammino per amore del Suo Nome” (Salmo 23) e poi tantissimi altri in cui è ricorrente questa espressione.
Quindi Jahvé sta nel Suo popolo, proprio attraverso il Suo nome santissimo; questa è la Sua Promessa, la responsabilità che ha verso di noi è quella di non abbandonarci, ma anche l’uomo riceve  il suo nome da Dio e la responsabilità dell’uomo verso Dio è di non profanare questo nome, annunciandolo in modo falso.
Il nome di Dio non si possiede ma si testimonia.  (Esodo 33. 19) “Farò passare davanti a te tutto il Mio splendore e proclamerò il Mio Nome, Signore, davanti a Te, farò grazia a chi vorrò far grazia, e avrò misericordia a chi vorrò far misericordia”. Insomma è completamente indipendente da noi, non ci intende, non possiamo manipolarlo.
Nel Nuovo Testamento Gesù amplia questo concetto  e ce lo fa sentire molto più vicino attraverso il Nome di Padre, addirittura Abbà, papà, è un vezzeggiativo (Mt. 6. 9) e (Romani 8.15).
Gesù è il Figlio di Dio, quindi Dio ci ha adottati (Prima Giovanni 3.1)
Siamo fratelli di Gesù (Romani 8. 29).
San Josemaria scrive in suo libro che si intitola Amici di Dio: “Dio è un Padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamalo Padre molte volte al giorno, e digli da solo a solo, nel tuo cuore, che Lo ami, che lo adori, che ti riempie”.
Gesù ci ha dato questa preghiera perfetta che dice: Sia santificato il Tuo Nome. E cosa vuol dire “santificare”? Significa riconoscere Dio come Dio, non come un’altra cosa, vuol dire testimoniarlo rendendogli gloria, lodandolo.
Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2814 dice: dipende inseparabilmente dalla nostra vita e dalla nostra preghiera che il Suo nome sia santificato fra le Nazioni.
I Cristiani hanno esteso all’Eucarestia, a Maria e ai Santi,  il rispetto per il Nome.
Parliamo per un momento delle false apparizioni;  ne abbiamo una vicinissima, a Trevignano, sconfessata completamente dalla Chiesa. Ecco, le false apparizioni, in cui si chiedono fondi per finanziare la costruzione, si è detto, di una cattedrale più grande di San Pietro, sono un vero abominio, contro il secondo comandamento, non perché abbiamo offeso Dio ma perché sono state ingannate le persone semplici, coloro che Dio chiama “i poveri di Dio” e queste persone, molte purtroppo, hanno accettato di dare soldi ad altre persone prive di scrupoli,
Circa cinquant’anni fa, questo comandamento si traduceva nel “Non bestemmiare”, cioè non offendere Dio con nomi spregevoli, ma in realtà il significato è altro, non è questo; tant’è che adesso, in teologia, anche con l’aiuto della psicologia, la bestemmia, nel senso classico della parola (e cioè aggiungendo delle parolacce, o parole di odio, di rimprovero, di sfida, ecc., al nome di Dio, non ha più la gravità di un tempo.
In realtà la bestemmia non è questo.

Citiamo il sonetto Primo di Gioachino Belli sulla bestemmia:
“Bada, non biastimà,  Pippo, che Iddio
è omo da risponne per le rime”
ed un proverbio orientale:
“Quando la rabbia ti fa sputare contro il Cielo,
finisci sempre con lo sputarti in testa”.

Si dice comunemente “bestemmiare come un turco”, ma in realtà in arabo, è grammaticalmente e stilisticamente impossibile bestemmiare. Ai nostri giorni la non-conoscenza di Dio nelle famiglie rende quasi naturale la bestemmia, anche nei giovani, ma questo è diventato un problema di maturità e dignità dell’uomo, non altro.
Passiamo quindi a capire cos’è veramente la bestemmia, e su questo dovremo fare una riflessione.
La bestemmia è scambiare il nome Persona di Dio con qualcosa di vano, pericoloso, con l’incitazione all’odio, verso altre persone o popoli.
C’è un nuovo spot appena uscito in TV, molto bello in cui si vede il disegno del viso di una donna a metà; da un lato la donna che piange in reazione a tutte le accuse, “tu non vali niente”, “senza di me tu non puoi fare nulla”, “sei una nullità”, ecc. dall’altro lato si vede il volto, sereno, non rattristato dalle lacrime e la risposta, bellissima: “no, io sono Maria, io sono Paola, io sono Lidia, io sono Daniela, ecc.” Ecco, questo spot ci dice proprio cos’è la bestemmia: è prendercela con gli altri, è togliere il nome agli altri.
E troviamo la bestemmia anche negli scritti e nei disegni blasfemi, che vogliono colpire  altre religioni, altre culture, ciò che è diverso da noi. e che rendiamo un nostro zimbello.
Sono bestemmie per l’umanità anche le pratiche criminali come la guerra, la tortura, la schiavitù…sappiamo benissimo che non esistono le guerre sante, anche se quando le combattiamo ci sentiamo dei giusti che combattono per Dio e contro coloro che non credono; ciò è assurdo ed è bestemmia.
E’ bestemmia anche usare e seguire una religione o più religioni, facendone cocktail,  come fitness dell’anima; in questo modo Dio diventa uno dei tanti…Ci sono anche persone che dicono cose bellissime e sante, ma che sono pronte, senza alcuna esitazione, a sacrificare gli uomini per quello che dicono; ci sono ancora persone che pretendono forme di devozione in nome di Dio, preghiere per avere indulgenze, pensiamo alle catene di S. Antonio.
E’ bestemmia il fanatismo religioso, da fanum, sacro.
Altra bestemmia è escludere un fratello o addirittura un figlio, perché vive una situazione che noi non approviamo.
Un altro modo di bestemmiare è accusare un fratello sbattendogli in faccia la Parola di Dio; questo è bestemmia perché Dio è giudice, non noi. E su questo dobbiamo fare una riflessione approfondita: quante persone teniamo a distanza perché non sono nel nostro DNA?
Bestemmiare è usare il nome di Dio per qualsiasi fine umano che ci sembri giusto.
Quindi l’unica unità che può esistere in una umanità multiculturale come la nostra è proprio il secondo comandamento: non nominare il nome del tuo Dio, e soprattutto non nominare quello degli altri o quello dei fratelli per contrastarli e umiliarli.
Gesù è vero Figlio del Padre, non ha mai giudicato nulla e nessuno; siamo nella sinagoga di Cafarnao e il Vangelo dice: “Tutti erano stupiti del Suo insegnamento perché insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi” e questo perché Gesù non parla accusando, non parla puntando il dito come gli scribi e i Farisei (e come facciamo anche noi), ma usa la giustizia di Dio.
Nel versetto successivo c’è un indemoniato, cioè uno che ha un’idea falsa  di Dio pur stando nella sinagoga, che dice a Gesù; “Io so chi tu sei, il Santo di Dio, allontanati!” Ecco, quest’uomo preferisce le sue idee a quelle di Dio. Riflettiamo su questo brano (Luca 4. 31-44  oppure Marco 1. 21-28).
Facciamo quindi un’analisi approfondita della bestemmia, perché contrariamente a quanto pensiamo, può essere che incorriamo molto facilmente nel bestemmiare, contro Dio e contro i fratelli.
Ultimo risvolto di questo comandamento è “non giurare”. (Mt. 5. 33-37) “Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti, Ma io vi dico, non giurate affatto,  sia invece il vostro parlare, si si, no no,  il più viene dal Maligno”.
C’è però un giuramento buono, chiamato assertorio, quando dice (Galati 1.20): “ Dio mi è testimone che io non mentisco”. Poi pensiamo anche a Dio, che giura più volte nel Suo nome, per esempio ad Abramo, per convalidare la Sua Parola: “Giuro su Me Stesso”, a garanzia che sarà così come dice.
Geremia 4.2 invece ci dà  delle valide indicazioni per il giuramento: “Giurerai, viva il Signore, con verità, con ponderazione e con giustizia”. Quindi nel giurare non dev’esserci inganno sulla bocca, è necessaria la riflessione e il non essere affrettati per salvare la propria faccia; insomma non dobbiamo fare come Erode che a causa del suo giuramento dovette far decapitare il Battista per portarne  la testa a Salomé; dietro il giuramento deve esserci sempre giustizia.
Salmo 62, 12 “Saranno lodati tutti coloro che giureranno nel Suo nome”; coloro che giureranno secondo questi tre criteri saranno lodati da Dio.
Un’ultima cosa sul nome; Dio ci chiama tutti, ognuno di noi, per nome (primo Samuele 3. 4), (Isaia 43. 1)  (Giovanni 10. 3)   (Atti 9. 3-4). Noi siamo di Dio, come dice Gesù “tutti i vostri capelli sono contati”, ma la cosa più importante per Dio è il nostro nome e ci dice “Vi ho chiamati amici”, ci ha scelti per tutta l’eternità, prima della creazione del mondo, per essere santi al Suo cospetto.
E per finire parlando di speranza abbiamo la formulazione “positiva” del secondo comandamento: “Io rendo onore al nome di Dio e a quello del fratello”. Questa è la speranza: dare la dignità, il rispetto, la concordia, a Dio e ai fratelli, e non credersi figli unici: lascio  a  Dio tutto l’onore perché riconosco la Sua grandezza, io sono  polvere. Guardo a Dio con sommo rispetto, perché anche se Lui è altro, è così diverso, è così immenso rispetto a me, mi viene sempre incontro. Lascio che Dio sia Dio, così finalmente sono libero; venero Dio leggendo la Sua Parola (Salmo 102, versetto 2), e come Giobbe, nelle avversità, riesco a dire: Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore. E naturalmente, nel nome di Dio, accetto tutti i miei fratelli, comunque e dovunque essi siano.
Alcune considerazioni finali:
• Bestemmia è l’uso improprio del nome di Dio,  per giustificare sé stessi, uso “principiatico, categorico, nel senso che viene usato un tono che si impone, quando in realtà dovremmo parlare con molta discrezione.
• Osservare il secondo comandamento è rendere lode e ringraziare per tutto il bello che abbiamo, tralasciando le cose che non ci piacciono.
• Si osserva che nella povertà del linguaggio biblico, spesso si usa la formula inversa del negativo per concetti affermativi; del tipo che “chi non crederà sarà condannato”, in realtà si traduce con  “chi crederà sarà salvato”; ed è una speranza che ha a che fare con una fede determinata, non generica, cioè noi crediamo nel nome di un Dio che è Padre, Figlio, Spirito, cioè relazione.
• Oggi dobbiamo avere la capacità di trovare modi di parlare di Dio che passino più attraverso i gesti piuttosto che attraverso le Parole; Gesù dialogava senza formalità con la donna di Samaria al pozzo e avvicinava il lebbroso, trovando per ognuno il modo giusto per parlare di Dio.
• All’inizio della Bibbia l’uomo dà il nome e questo è partecipazione all’atto creativo di Dio: nulla rimane come il nome. Quando definisci qualcuno, lo identifichi in qualche modo. L’uomo non dà il nome solo per una volta: quando incontra la donna e ciò perché la donna ha già un nome, è parte originale, fondativa, costitutiva, proprio nel suo essere mistero e diversità rispetto all’uomo



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